SUSPIRIA, la danza macabra delle streghe di Luca Guadagnino – Recensione

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#4 Suspiria di Luca Guadagnino
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Dakota Johnson è Susie Bannion nel remake di Suspiria
Luca Guadagnino approda al Venezia con il remake di Suspiria, film tanto atteso che da tempo si dice essere un non-remake. Ora se ne ha conferma dal diretto testimone: l’iridescente incubo argentiano riprende vita sotto mentite spoglie, smarcandosi senza problemi dall’inevitabile confronto verso un film che si è col tempo imposto come capostipite di genere. Se proprio lo si vuole chiamare “remake”, bisogna intenderlo come un vero e proprio ri-facimento: di ambientazione e di modo, cioè di stile; di impianto narrativo; di messaggio (su cui, probabilmente, è preclusa la possibilità di una univoca posizione o lettura).
Non siamo a Friburgo, ma a Berlino. Nella Berlino divisa dal muro, immersa in un clima umido e soffocante. La città è ritratta con luce livida, tutto ha il colore della cenere, piove ininterrottamente, non c’è calore e, verrebbe da dire, non c’è vita. Gli echi del terrorismo e della (drammatica) situazione politica dell’epoca – che nel film si apprendono, puntualmente, dai notiziari – non sono un semplice contorno, né solo una corretta contestualizzazione. Sono parte integrante di un racconto complesso, che mira a una rappresentazione multiforme – cioè anche credibile, ben oltre i limiti che il genere più comunemente offre – del male.
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Le ballerine di Suspiria
L’impianto narrativo è quello noto: una ragazza arriva in una scuola di danza nella quale avvengono sparizioni e morti improvvise. Guadagnino crea un’opera dal sapore antico ma completamente postmoderno. Questo “non remake” parla a un pubblico dando per scontata la possibilità che sia già entrato in contatto con l’originale. Non c’è quindi la costruzione del mistero: le insegnanti sono streghe, lo sappiamo sin da subito. Non c’è il fascino del thriller che reggeva il cult di Dario Argento, né il gusto per le architetture, per i giochi di luci e ombre inquietanti, e nemmeno per il sangue. Suspiria, nel 2018, è una riflessione sull’arte. Il tema si approccia con un gusto classico, partendo dalle origini, dall’epoca primitiva in cui il gesto artistico aveva una valenza magica e divinatoria. Il lungometraggio si concede solamente due sequenze con al centro il tema dell’orrore e percorre per il resto del tempo le vie che portano all’indagine dell’amore, del rimpianto e della colpa. I sospiri non sono più rantoli, ma appaiono per documentare i tormenti amorosi e per ritmare lo sforzo fisico dei gesti di danza.
Guadagnino è tecnicamente perfetto: quando il corpo di ballo esegue i passi sembra di assistere al magistrale montaggio dell’esorcismo in The Wailing, mentre il sabba di streghe richiama per estetica Society di Brian Yuzna. Lo stile adottato è classico: zoom epilettici, carrellate improvvise, dettagli insistiti sulle espressioni facciali, rimandano alla prosa degli anni ’70 senza però scadere nel vintage fine a se stesso.
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Suspiria si sospende nel momento in cui deve fare il salto finale per ripagare lo spettatore. L’equilibrio formale sembra non tramutarsi in una vera passione perturbante. Ogni gesto tecnico ha una ragione esplicita, fin troppo chiara, tutto sembra studiato e pianificato con cura e perfezionismo, ma si perde così la naturalezza delle emozioni. È difficile lasciarsi assorbire dalla storia, smettere di analizzare quello che si sta vedendo per immedesimarsi nelle vicende. In questo senso Suspiria è il prodotto adatto per una Mostra del cinema come quella di Venezia. Eppure i continui legami alla teoria del cinema (come la citazione di Lacan, la cui teoria dello specchio viene ripresa anche nella sequenza post credit) e l’importante sottotrama che si alterna a quella principale fanno trasparire una eccessiva ambizione non sempre corrisposta.
Il Suspiria del 2018 è un’opera densa di metafore e suggestioni, un rituale cinematografico che mescola la poetica espressionista di Fassbinder con la diabolica pittura di Balthus. All’interno di una cornice asfittica e claustrofobica, il regista di Chiamami col tuo nome lavora sulla decostruzione dell’iconografia argentinana e sceglie volutamente una differente visione, un’inedita prospettiva immaginifica. La violenza dei colori accesi e delle architetture geometriche del film del ’77 lasciano spazio alle plumbee allucinazioni e all’orrorifica deformità degli spazi, dei corpi, del tempo. Le ballerine di Guadagnino si muovono in una dimensione sospesa tra finzione e realtà, nell’utero primordiale della “Madre” che diventa profanatrice di vita e sobillatrice di morte. Suspiria è la danza macabra delle streghe che assume la forma di una rapsodia satanica gelida e inquietante.
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Dakota Johnson in Suspiria (2018)
Ma c’è un fatto che potrebbe suonare ironico ma è tutt’altro che trascurabile. Assaporando l’atmosfera creata da Guadagnino (il quale è un maestro nel creare sensazioni), si avverte la voglia di ritornare al capolavoro di Argento. Viene voglia di confrontare e studiare l’originale, deframmentarlo e analizzarlo con scrupolosa attenzione. È impossibile non cogliere il successo di un “non remake” come questo che non solo onora l’originale, ma invoglia lo spettatore a riscoprirlo.
G. Lingiardi-A. Curini-A. Rurali