
Non è semplice essere un film di Star Wars. Si ha a che fare con aspettative fuori misura, con la necessità di creare hype a ogni passaggio in sala e, ultimo ma non per importanza, si deve interagire con la fan base più esigente (per usare un eufemismo).
Solo: a Star Wars Story sembrava destinato a fallire in partenza sotto tutti questi aspetti. I problemi di produzione, la campagna marketing arrivata in ritardo, non hanno creato l’attesa clamorosa dei precedenti capitoli. Sin dalla produzione si percepiva aria di disfatta, a causa di un attore protagonista (Alden Ehrenreich) mai accettato dagli appassionati e di un cambio in cabina di regia a dir poco drastico. Per questo motivo la storia del giovane Han Solo arriva in sala già smitizzata o, per lo meno, pesantemente affaticata. In molti proveranno godimento nel dire “ve l’avevo detto” quando il film verrà affossato da qualcuno. Eppure viene da pensare a cosa sarebbe successo se questo spin-off non fosse appartenuto al canone starwarsiano. Veramente avremmo gridato alla disfatta se non fossimo stati abituati a un franchise che, anche nelle peggiori manifestazioni, ha influito sull’immaginario collettivo come nessun altro?
Certo, Solo è di gran lunga il più “debole” tra i nuovi episodi di Guerre Stellari, è sfilacciato, teso tra un western e un noir. La regia di Ron Howard fatica a valorizzare i momenti di climax, appiattendo tutto in una monocromia emozionale oltre che visiva. Solo non ha la forza dei film di Star Wars, non ne ha nemmeno l’immaginario. È una corsa fatta in compagnia di personaggi in cui è impossibile identificarsi come si potrebbe fare con un Luke o una Rey. Manca l’incombere di un villain iconico come Dart Fener o il fascino esoterico dei Jedi, per rendere la storia memorabile.
