Roma è un viaggio nell’infanzia di Alfonso Cuarón, un gesto romantico e toccante che parla di passato e abbandono. Presentato Venezia 75.

È importante sciogliere ogni dubbio sul titolo dell’ultima fatica di Alfonso Cuarón, presentata in concorso a Venezia 75. Roma è un chiaro riferimento a Colonia Roma, quartiere residenziale nel centro di Città del Messico, luogo in cui il regista è nato e cresciuto e ha trascorso la sua infanzia. Ed è proprio lì che Cuarón vuole tornare, in quella precisa stagione della sua vita segnata dal durissimo dramma dell’abbandono.

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Il regista Alfonso Cuaròn sul set di Roma
Un film intimo e personale

Con Roma recuperiamo il Cuarón più personale, più intimo, in pausa dal periodo hollywoodiano, capace comunque di indirizzare la gestione dell’elemento spettacolare a servizio di uno scorcio esistenziale davvero toccante. Il regista messicano, infatti, attinge ai propri ricordi per raccontare la vita all’interno di una famiglia degli anni Sessanta: un nucleo nutrito e vivace – benché piagato da problemi coniugali –  in cui hanno un ruolo cruciale gli affezionati e i fedelissimi domestici. Il racconto privato si interseca con la storia, con una tale semplicità che è, senza forzature, una cartolina di vita: il Messico inquieto, in continua trasformazione, si specchia nei propri cittadini. Fra questi, spicca la domestica Cleo, la vera protagonista della vicenda. Quando rimane incinta, in una gravidanza non attesa, il suo cammino di accettazione la porterà (e ci porterà) a esplorare gli angoli e i confini di una società rappresentata in modo non meno brillante e acuto. Il progresso tecnologico, per esempio, è simboleggiato dai molti aerei che solcano il cielo, ma soprattutto da un’auto che sembra impossibile da manovrare. È questa l’immagine di un’identità messicana complicata che ambisce a uscire dalla tradizione, dal proprio passato, ma non riesce a fare proprie le contraddizioni del futuro.

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Roma (2018) di Alfonso Cuaròn
Il gesto romantico di Cuarón

Roma è il gesto neorealista di Alfonso Cuarón, una specie di Amarcord sulla quotidianità e lo spaccato sociale all’epoca del massacro di Corpus Christi (1971). Il regista fotografa in un livido bianco e nero la storia della sua città assemblando un film stratificato che nell’alternanza di panoramiche e primi piani trova il proprio apice. Quasi a voler rimarcare con vigore il distacco tra il disordine sociale e il caotico clima familiare. Cuarón – che ha scritto, diretto e fotografato il film – crea un’esperienza immersiva in cui i lunghi piani sequenza e i campi lunghissimi servono a raccontare più vicende contemporaneamente. La spazialità è usata per suddividere il fotogramma in piccole sezioni di testo. In una bellissima sequenza ambientata al cinema, ad esempio, due personaggi affrontano, a sinistra, un dialogo molto drammatico, mentre a destra, sullo schermo, scorrono le immagini di Tre uomini in fuga, commedia di Gérard Oury. Sta allo spettatore decidere se ridere per ciò che si vede sullo schermo o se partecipare al dolore dei protagonisti. Un dolore sempre condiviso, tanto umano da sfociare nella compassione ma anche in grado di generare tensione, e di cui è impossibile non essere compartecipi.

Roma non è solo un omaggio al cinema italiano neorealista (da Fellini e Scola), ma un vero e proprio atto di forza di un cinema capace di fare un’analisi su più livelli. Un progetto complesso, dall’afflato catartico, che raggiunge l’eccellenza mettendo davanti agli occhi del pubblico la voglia spontanea di raccontare una storia sentita, vissuta, compianta. E il risultato è un meraviglioso affresco esistenziale composto da un regista che, da anni, non smette di sorprendere.

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