QUEL FANTASTICO PEGGIOR ANNO DELLA MIA VITA, la recensione

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Quel fantastico peggior anno della mia vita è la traduzione maldestra dell’originale inglese Me and Earl and the dying girl, vincitore del Sundance Festival 2015, che il regista Alfonso Gomez-Rejon ha tratto dal romanzo omonimo di Jesse Andrews. È sicuramente una commedia, soprattutto per la leggerezza ponderata con cui parla di amicizia, morte e dei conflitti che due ragazzi devono affrontare per rimanere amici nonostante imbarazzi e incomprensioni apparentemente insanabili.
Gomez-Rejon sceglie di dare al film l’agilità del miglior indie statunitense, quello di Juno o Noi siamo infinito (The Perks of being a wallflawer), per intenderci. I personaggi – fedeli allo spirito del libro di Andrews, che ha curato anche la sceneggiatura – fanno di tutto per nascondere i loro veri sentimenti dietro una maschera, col risultato di comunicarli in modo indiretto e quindi ancora più sincero.
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Il protagonista, Greg (Thomas Mann, e non è uno scherzo) si nasconde più di tutti gli altri e non avrebbe potuto scegliere una maniera migliore per  recitare la sua parte: il cinema. Insieme con il suo amico d’infanzia Earl (RJ Cyler), Greg gira dei cortometraggi demenziali ispirati ad altrettanti capolavori del grande schermo, molti dei quali sono europei. Un giorno scopre che la sua vicina di casa Rachel (Olivia Cooke) ha una leucemia. La loro amicizia, iniziata nel più forzato e insincero dei modi, cresce giorno dopo giorno e si nutre dell’unica cosa che può distrarli dalle loro vite: raccontare storie.
Ciò che fa di questa pellicola un film che commuove è la sapiente gestione di emozioni difficili da maneggiare, perché è semplice scadere nella retorica quando bisogna affrontare lo sgomento di un ragazzo di fronte alla morte e il suo senso d’impotenza, l’impressione che mai riuscirà ad avere il minimo controllo sulla sua vita. Controllo che invece può avere come regista e che lo aiuta a dare un valore alle sue insicurezze.
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Un’altra scelta felice, nonostante solo un cinefilo possa apprezzarla al 100%, è quella di fare del meta-cinema senza ostentarlo, amalgamando naturalmente nella narrazione e nella colonna sonora citazioni ora più evidenti, ora più sottili. Greg ed Earl riscrivono una minima e personale storia del cinema con i loro film, imparano – dolorosamente – a conoscersi più a fondo e trovano il modo di affrontare una tragedia col giusto distacco – non s’intenda menefreghismo, noncuranza.
La nota più positiva di tutte, però, è la scelta di lasciare che siano gesti, oggetti e situazioni a portare avanti la narrazione, supportati da dialoghi verbosi e appassionati quando prevale la commedia o scarni, essenziali quando c’è bisogno di digerire la tragedia. Ecco perché, di fronte a una storia delicata e ironica come questa, il titolo italiano sembra ancora più inappropriato.
Paolo Ottomano
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