QUANDO C’ERA MARNIE, la recensione

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Due occhi dello stesso blu profondo del mare aperto che osservano e ritraggono in silenzio la vita delle altre persone, senza mai però riuscire a sentirsi veramente parte di quella giostra umana fatta di usanze e consuetudini che sfugge a ogni loro comprensione; due occhi di un colore più unico che raro su terra giapponese che, involontariamente, richiamano proprio quel “regno dei sogni e della follia” che è lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e di Isao Takahata, il quale riconferma puntualmente, con ogni nuovo lungometraggio, il proprio status di “perla rara” nell’ugualmente astratto e concreto mondo dell’animazione tradizionale. La profondità e la rabbia di quello sguardo appartengono alla piccola e introversa Anna, piegata da una grave forma di asma e alla strenua ricerca di “giorni normali”, giovane protagonista di una pellicola che svela la sua preziosità lentamente e con pazienza, godendo di quei piccoli momenti che manifestano una magia di tipo quotidiano, come una leggera danza in giardino sotto un manto di stelle o il quieto scivolare di una barca da pesca sulle acque limpide di un pittoresco acquitrino.
Dispiace, quindi, che l’abile animatore Hiromasa Yonebayashi, reduce da quell’interessante esordio alla regia che porta il nome di Arrietty-Il Mondo Segreto Sotto il Pavimento e arrivato ora ad accarezzare tali livelli di rara poetica visiva con l’adattamento del racconto “When Marnie Was There” della scrittrice inglese Joan G. Robinson, abbia infine preso la difficile decisione di scendere da quell’inarrestabile “treno dei desideri” che continua a fare sfoggio di un soffice spirito della foresta di nome Totoro in qualità di proprio alfiere personale, a simboleggiare una ferrea tradizione di buoni sentimenti, rispetto per la Natura e morale cristallina. Prima di lasciare lo Studio Ghibli, Yonebayashi porta alla vita un ultimo piccolo tesoro che deve molto alle precedenti opere del Maestro Miyazaki ma che, allo stesso tempo, riesce a ritagliarsi uno stile e una collocazione riconoscibili e personali. La pace dei sensi e l’armonia rurale, qui sotto forma di rimedio genuino per un oscuro male di natura fisica e onnipresenti in ogni prodotto cinematografico del celebre studio d’animazione, cedono gradualmente il posto a inediti, seppur lievi, richiami al filone dei thriller sovrannaturali. L’origine di questi piacevoli innesti stilistici va senza dubbio attribuita al contesto di elaborazione dell’opera cartacea originale: la ricchezza folkloristica e la propensione all’affacciarsi sull’appena percettibile dimensione dell’invisibile, tipiche delle campagne inglesi, donano a Quando C’era Marnie un’avvincente dose di mistero che trova la sua completa risoluzione nel commovente e intelligente finale, da ritenere per nulla scontato.
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Chi è quella ragazzina dai capelli color dell’oro che solo gli occhi di Anna riescono a scorgere? Qual è la vera natura di quella villa fatiscente che sembra risvegliarsi unicamente di notte per ospitare lussuose feste private dall’antico sapore europeo? Si tratta di quelle frequenti apparizioni di fantasmi delle quali Anna ha sentito tanto parlare o è tutto solamente frutto della sua fervida immaginazione?
La veste d’ignoto che ricopre Quando C’era Marnie intriga e sorprende ma è l’esaltazione di un sentimento più puro dell’aria il vero cuore pulsante di una pellicola che non teme di portare in scena la storia d’amore tra due ragazzine della stessa età; non c’è nulla di ambiguo nell’opera di Yonebayashi, aperta a molteplici chiavi di lettura, ma è comunque di amore che si sta parlando: quel genere di amore capace di trascendere i confini di tempo e spazio, un’emozione che non conosce secondi fini e completamente estranea alla mutevole forma del male degli uomini.
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