È un cinema della mente quello di David Fincher. Un trattato sui malfunzionamenti del pensiero umano, dei gap della nostra emotività, degli strappi psicologi da cui si insinuano, per poi fuoriuscire con forza disumana, solitudini, timori, vendette e ossessioni. Ultimo capitolo di questo saggio lungo quasi Trent’anni è Mank, dal 4 dicembre disponibile su Netflix.

Quella che potrebbe apparire come un’indagine sulla nascita del capolavoro di Orson Welles, Quarto Potere, è in realtà una lettera sincera, onesta, sulle titubanze, sulle paure, che attanagliano, trascinandolo sul baratro dell’ossessione, la figura dello sceneggiatore. A farsi portavoce e guida privilegiata di questo girone dantesco abitato da star, divi, e produttori esigenti nella Hollywood della Golden Age è Herman J. Mankiewicz, personaggio ammaliante e ammaliatore  a cui presta anima e corpo un immenso Gary Oldman.

Tutto sulla carta odorava di capolavoro, eppure qualcosa all’interno della fucina creativa di Fincher, è andato storto.

È bello Mank? Sì. Piacerà a tutti? Probabilmente no. Nessun disguido tecnico, difetti registici, o mancanze creative vanno a impoverire la purezza di un diamante come questo. Perché Mank è a tutti gli effetti da considerarsi come tale: un diamante grezzo, ricoperto da pagine e pagine di una sceneggiatura che lo soffoca, appesantendolo. Nato per dare finalmente vita alle parole del padre Jack, David Fincher fa un passo indietro concependo un film fatto a immagine e somiglianza di questa sceneggiatura. Ma le parole di Jack Fincher non vivono di quella freschezza e tagliente sarcasmo che aleggia con attrattiva e magnetismo in Aaron Sorkin, o Gillian Flynn. È un macigno, un trattato sull’America post-depressione, che imprigiona tanto il contesto diegetico, quanto quello esterno allo schermo, all’interno di un’asfissiante atmosfera claustrofobica. La vera pecca di Fincher è dunque quella di essersi affidato totalmente a tale script, fino a sottrarre la propria visione autoriale a favore di un’indagine sulla difficoltà dell’uomo di trovare le parole giuste quando lui stesso cade vittima della propria auto-distruzione. Quella di Herman Manckievicz rientra perfettamente nel gioco mentale costruito da David Fincher, eppure dietro questo legame affettivo il regista pecca di ingenuità.

Pregno di nomi, sistemi produttivi, e giochi politici non sempre noti al grande pubblico, invece di coinvolgere il proprio spettatore rischia di estrometterlo da questo gioco psicologico. È tangibile l’alto rischio di allontanare dal proprio schema narrativo una parte del proprio pubblico, ignaro delle personalità lì raccontate e poco presentate. Per comprendere appieno questa mancanza bisogna uscire dalla mente dell’amante o dello studioso di cinema, e affiancarsi a quello del grande pubblico che vede il mondo della Settima Arte come pura distrazione e fonte di intrattenimento. Non riconoscendo i nomi di Thalberg, Hearst, Mayer, Davies, lo spettatore medio si sente perso in questo oceano in tempesta. Vede scorrere le immagini, si lascia anche ammaliare dalla maestria registica di Fincher, senza esserne pienamente coinvolto affettivamente.

È dunque nei momenti di pause dialogiche, quando cioè le bocche si chiudono per lasciar aperta la mente e i suoi malfunzionamenti, che Mank riprende vita, e Fincher (figlio) può riprendere mano al timone portando in salvo una nave destinata a naufragare per il peso delle parole di Fincher (padre).

Mank

Figlio legittimo di quel brulicante mondo sotterraneo di esseri nati dal fuoco di mille ossessioni, Mank aggiunge un tassello imprescindibile a questa schiera di uomini imperfetti colti nei loro vizi (e poche virtù) dalla lente di David Fincher. Parte integrante e allo stesso tempo anarcoide del sistema hollywoodiano, Herman adora circondarsi di figure auto-erettesi a divinità come quelle dei produttori, per poi volere lui stesso buttarle giù una a una, sull’onda di una spinta rivoluzionaria. La sua ossessione del controllo delle azioni proprie e altrui (ottenuta in eredità dagli antenati cinematografici che lo hanno preceduto nel pantheon cinematografico fincheriano) lo condurranno dritto verso una spirale autodistruttiva che chiama in causa la contemporaneità e i miti tragici, tra crisi della ratio occidentale e il dominio di un inconscio mai capito, né tantomeno domato. Non è un caso, dunque, che sia proprio un personaggio come Herman Mankiweicz a firmare il copione della prima grande opera capace di ribaltare i canoni imposti dal cinema classico hollywoodiano, come Quarto Potere. Il Mank di Gary Oldman è un fiume in piena che prende e ingloba tutto ciò che incontra sul suo passaggio; una calamita per gli occhi da cui è difficile distaccarsi, traghettatore di un’anima perduta capace di dar vita a un’opera magna illuminata dagli ultimi fuochi di una Hollywood pronta a cambiare per poi non cambiare mai veramente. È soprattutto nei momenti di pausa, nel silenzio più assoluto, rotto soltanto da una musica swing e big band, che Oldman permette ai propri spettatori di entrare nell’interiorità del proprio personaggio. I suoi occhi si tramutano in vetro smerigliato da cui intravedere un’anima in tumulto, bagnata da alcool e stuzzicata da un’ossessione per un lavoro da concludersi e ricordi pronti a presenziare, distraendolo. Una voragine profonda, da cui è difficile scappare, circondata da un corollario di personaggi altrettanto interessanti e riproposti sullo schermo da performance al limite della perfezione. Nessun manierismo, nessuna caricatura: la galleria di uomini e donne che si avvicinano al mondo di Mank sono interpretazioni sopraffine, dalla carica realistica a opera di attori come Charles Dance, Tom Burke, Amanda Seyfried e Lily Collins (forse la più grande sorpresa di tutto il film grazie a una performance tutta giocata in sottrazione). Se vi erano dubbi sulla capacità di Fincher di dirigere i propri interpreti, Mank ve li cancellerà tutti.

Ma tali performance nulla avrebbero potuto se non sorrette da una regia solida, impeccabile, di un regista che sfrutta i sussurri, e il linguaggio non verbale dei propri personaggi per riproporsi di colpo, mettere da parte una sceneggiatura opprimente e recuperare cifre stilistiche questa volta adattate al periodo trattato. Sono questi momenti sospesi che permettono a Fincher di congelare sullo schermo quello che galleggia tra le pliche del suo cervello (e non quello di suo padre) roccaforte di una fervida immaginazione che si nutre avidamente di suggestioni, ricordi, spiriti forgiati da peccati e peccatori. Tornano quindi le inquadrature dal basso, gli zoom, i viaggi in macchina (da antologia la perdita della pagina che causerà l’incidente automobilistico a inizio film) gli incontri davanti al tavolo da cui scaturirà l’ennesimo e importantissimo turning Point, qui tutti adombrati da una fotografia in bianco e nero e raccolti da uno stile di ripresa perfettamente aderente ai canoni del cinema degli anni Quaranta. Meticoloso fino allo svenimento, ogni dettaglio del suono e della colonna visiva (fondu, sovrimpressioni, campi-controcampi) è passato al controllo finale del regista. Ogni minimo granello di polvere è stato studiato, modellato come creta così da rendere il proprio film una macchina del tempo alla riscoperta di una Los Angeles di quasi ottant’anni fa.

Mank

Bellissimo e funzionale tanto all’economia del racconto, quanto a un criterio di coerenza all’interno del cinema di David Fincher, è l’uso della sovrimpressione al party: un ponte diretto e privilegiato alla confusa interiorità del personaggio pronta a soggiogarlo, e fare a pezzi la sua fragile visione del mondo come vetro scheggiato.

Svestitosi da quell’abito pesante che lo rallenta, impedendone grandi slanci creativi, Mank diventa una galleria di rifrazioni prismatiche di una personalità in bilico tra il genio e la sregolatezza posta al centro di un mondo come Hollywood in cui tutto nella propria natura fittizia, viene venduto per vero, anche i sentimenti, reduplicando così il processo di creazione e realizzazione dei film su cui lavorare. Dopotutto il segreto di Rosebud è quello del cinema: un globo meraviglioso che offre l’illusione di uno pseudomondo attraverso un vetro schermo. Quel segreto Fincher ancora una volta ha dimostrato di averlo risolto, affondando a pieni mani in un’epoca e in un genere ancora diverso, eppure sempre uguale a quello affrontato in precedenza, regalandoci un altro capitolo del suo trattato della mente umana scritto con l’inchiostro indelebile di fotogrammi cinematografici.