
Un personaggio può essere interessante soprattutto in due modi. Può possedere qualità eccezionali, particolarità che lo rendono unico e inimitabile o, al contrario, essere estremamente normale, plausibile e riconoscibile alle persone che ci camminano accanto. I fratelli Dardenne strutturano nei loro film questo secondo tipo di soggetti, così comuni da rendere i loro nomi un orpello dimenticabile. Così, ne La ragazza senza nome, Jenni, interpretata da un’incredibile Adèle Haenel, resta catalogata nella mente di chi guarda solamente come “la dottoressa”. È una pellicola spersonalizzata, quella dei Dardenne, in cui l’identità viene però cercata con una forza sovrumana. Lo spunto di partenza è il senso di colpa di Jenni: una notte, in ambulatorio, fuori dall’orario delle visite, ha suonato una donna alla sua porta, senza però ricevere risposta. Il giorno dopo, una volta tornata in studio, la dottoressa apprenderà una terribile notizia: una giovane donna africana è morta nei paraggi e le cause del decesso sono sconosciute, così come le generalità della vittima. Le videocamere di sicurezza dell’ambulatorio mostrano che, la donna che aveva chiesto aiuto la sera precedente, era la vittima del terribile omicidio, in fuga da una minaccia invisibile. Jenni, distrutta dal rimorso, decide di intraprendere una ricerca per scoprire chi è veramente quella ragazza.
L’opera dei Dardenne è un film di denuncia privo di qualsiasi moralismo. Con l’asciuttezza e l’essenzialità, tipica del loro stile, i due mostrano un mondo realistico, simbolo di movimenti politici e sociali ben più complessi. Non è difficile intravedere nelle azioni della dottoressa, nel lavarsi le mani di fronte ad un bisogno dopo avere assolto il proprio compito, uno specchio dell’Europa di oggi. Lo straniero ignoto, che bussa alla porta, è più che mai vicino ai numerosi caduti delle guerre (rappresentate nel film da un inseguitore, per gran parte non visibile) in fuga verso la “casa altrui”.
