LA CONSEGUENZA, la recensione del film di James Kent

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The Aftermath
Keira Knightley in The Aftermath
La conseguenza
Alexander Skarsgård in La conseguenza
A prima vista, ciò che James Kent realizza con La conseguenza – l’ascendenza letteraria è di successo, a firma di Rhidian Brook – è un melò di garbata fattura: nelle sue logiche, nelle caratteristiche proprie del genere (che tende a superare, con esiti un po’ infelici, come chiarito oltre), nell’andamento prevedibile ma palpitante, è difficile trovare tanti elementi formalmente fuori posto. La tensione è giustapposta, così come l’eros, gli elementi patetici: a livello narrativo tutto ciò che ci si aspetta, che si è portati ad attendere con più o meno suspense, accade secondo previsione, con tinte forti o deboli che siano, in un tripudio affermativo e, specialmente, consolatorio che non lascia spazio ad amareggiamenti e sorprese d’impatto.
Per il suo genere, La conseguenza può considerarsi, se non un film riuscito o memorabile, almeno un risultato che può appagare un pubblico sentimentalmente incline, desideroso di lasciarsi trasportare dal travaglio di una storia d’amore triangolare e pericolosa (il colonnello inglese, Jason Clarke, con la moglie Keira Knightley, che dimorano nella villa dell’affascinante architetto tedesco, Alexander Skarsgård, in una Germania appena liberata dalla dittatura nazista) e ricca di chiaroscuri (la storia di un condiviso passato drammatico, per esempio). Ma non è sufficiente a salvare il film, le cui velleità probabilmente sono un po’ più alte: se da un lato la superficie funziona – il problema non è la fattura, né come il regista si muove, considerando anche la sua enorme esperienza di genere nel cinema e, soprattutto, nella televisione britannica – dall’altro c’è qualcosa che stona nella generale consonanza. È, forse, il modo operativo con cui viene proposta la rappresentazione d’epoca e l’ambientazione, spie di una certa spregiudicatezza che non funziona fino in fondo: passi l’eleganza patinata e pulita di tutti, inamidati e truccati in modo fin troppo impeccabile per essere calati in un contesto di guerra, sebbene a latere (del resto, una costruzione melodrammatica non deve tener conto di un realismo di fondo perseguito a tutti i costi).
The Aftermath
Keira Knightley in The Aftermath
Il fatto che però il periodo storico e il luogo siano trattati costantemente in parallelo a una storia del tutto personale di amori e rancori, seppur interessante nello spunto, diventa pedante e snervante nello svolgimento, nella misura in cui i protagonisti sembrano sempre leggersi (e di conseguenza muoversi), nell’enorme e indecifrabile portato storico e umano in cui vivono, secondo parametri, convinzioni e sentimenti del tutto personali, il più delle volte fuori da logiche di comune condivisione o coscienza. Questo aspetto non è propriamente superficiale, da melò, ma è superficialmente inteso e affrontato; per cui non si ha la percezione che i protagonisti del film siano angosciati sia dal contesto confuso del loro presente, sia dai propri (pure sacrosanti) drammi e trascorsi personali, ma semplicemente travolti da un’egoistica, accecante passione o da malsopito rancore che lasciano la loro attualità su uno sfondo vivido ma schermato, scavalcato da tutte le urgenze sentimentali del caso. Una vividezza comunque molto parziale: in effetti appaiono poi slegate anche tutte quelle spinte di crudo realismo attraverso le quali si tenta di calare il film in una dimensione che, forse, semplicemente non è la propria, non con l’uso degli espedienti della veridicità. Le rivolte, la povertà, le azioni terroristiche degli ultimi giovani devoti al regime sono rappresentate con la stessa prevedibilità usata per la storia d’amore. Un conto, tuttavia, è la finzione di una situazione familiare, pure ammissibile, un altro, invece, è la banalizzazione a fini narrativi di una ben chiara realtà storica.
Si crea quindi una sorta di corto circuito, uno squilibrio che appesantisce il racconto, che carica all’eccesso l’impianto narrativo nella misura in cui si cerca in ogni modo di dare uguale importanza a entrambe le parti, di farle scivolare l’una sull’altra, come normale, senza reale risultato, se non attraverso risaputi cliché. Ciò che si salva, infine, è proprio ciò che grida più candidamente il proprio aspetto fuori tempo, irrealistico: la messinscena, tanto garbata e pulita, funzionale per contrappasso al naif dei turbamenti familiari, del fuoco di una passione repressa, del tenebroso e del pruriginoso. Messinscena che diventa ambasciatrice del sentimentalismo della drammaticità facile e prevedibile che innerva il film.