Joker
Joaquin Phoenix in Joker
La paura post 11 settembre non sembra volersi rimarginare; silente si muove tra i vicoli della città incarnandosi nell’odio irragionevole e nelle decisioni incomprensibili del governo Trump. Un’onda d’urto lunga diciotto anni che continua a investire, sotto mentite spoglie, anche il cinema. E così la si ritrova in aspetti, temi, rinchiusa in un personaggio o in un suo gesto, capo d’abbigliamento, o chissà, in una risata.
È una paura dilagante che ha intaccato nel profondo il nostro modo di vivere e i simboli della nostra cultura di massa come supereoi e maschere divistiche.
E così, come il Bruce Wayne di Batman Begins, anche la nemesi dell’uomo pipistrello riplasmata dalla cinepresa di Todd Phillips (Una notte da leoni) gioca su una maschera tormentata di nietzschiana memoria.
Il sorriso di Arthur Fleck si fa ghigno catalizzatore di un popolo stanco delle ingiustizie sociali che lo schiacciano verso il baratro dell’inferno; una mano pesante posta con violenza sulle loro teste, perfetta reduplicazione diegetica del potere suprematista e bigotto che manovra i propri cittadini nell’universo reale.
“Mia mamma mi diceva sempre di sorridere e di mettermi una faccia felice”, ma di felice, spensierato e ironicamente capace di ribaltare in chiave comica una situazione ad alta tensione, l’abito che veste il Joker di Phillips ha poco o niente. È una veste scura la sua, dipinta con una fotografia ombrosa, crepuscolare, mai accesa ma sempre tenuamente in attesa della fatale esplosione psicologica del suo protagonista.

Meno cinecomic, più autorialità: ecco cosa contraddistingue il Joker di Phillips dai film supereroistici a cui siamo stati abituati negli ultimi dieci anni. Il dolore, quello autentico, alienante, che ti mangia vivo dall’interno è l’unica forma di sorriso che può segnare il volto di uno strepitoso Phoenix. È un sorriso artificiale, fittizio; un ghigno celante un maelstrom interiore sull’orlo dell’implosione. Nessuna edulcorazione nella sua storia: la violenza scoppia improvvisa come una risata.
Lontano dal Joker di Jack Nicholson, astratto e colorato come i quadri che lo attorniavano, quello di Phoenix si impronta su una interpretazione ancora più sommessa di quella di Heath Ledger. Il suo Arthur Fleck è una miccia silenziosa pronta a esplodere. La sua ascesa al regno della follia è una danza, la stessa che caratterizza il cinema (non a caso definito proprio “cine-balletto) di Charlie Chaplin. Come Charlot Fleck si eleva a rappresentante dei deboli, degli inascoltati, dei reietti, di coloro che vivono all’ombra del successo privati eternamente del sorriso; un’analogia sottolineata dal film stesso che ripropone, in una scena meta-cinematografica ad altra tensione, la proiezione di Tempi Moderni. Vagabondo dell’oscurità, ai fiori di Charlot Joker preferisce le pistole, armi ribelli di una fetta sempre più ampia di società strangolata da debiti, diseguaglianze e ingiustizie. Incapaci di ridere alla vita, i bassifondi di Gotham salgono in strada indossando una maschera, la stessa a cui si affida Fleck per ribellarsi ai fantasmi di un passato impossibile da dimenticare.

E così Fleck, l’uomo incapace di far ridere un mondo sempre più egoista e anempatico, si lascia inghiottire gradualmente dalle fauci della follia per trasformarsi nel suo alter-ego mefistofelico. I mali della società si condensano nella sua anima così da aprire una breccia e liberare il loro nuovo leader: Joker.
L’apparente lentezza che trascina l’opera è in realtà un processo di involuzione allo stato primitivo di un essere imprigionato nei suoi istinti atavici e animaleschi. La regia di Phillips alterna primissimi piani di un Joaquin Phoenix sublimemente attrattivo a totali claustrofobici illuminati da luci intermittenti e artificiali, risultando abile nell’immergersi nelle ossessioni dell’uomo scavando sotto lo stato epidermico della sua solo apparente normalità. L’obiettivo della sua cinepresa si fa ora lente d’ingrandimento con cui indagare con lacerante verosimiglianza gli intersitizi della compromessa psiche del protagonista.
Da canto suo Phoenix porta alle estreme conseguenze la polisemia del gesto catalizzando in esso significati metaforici e secondari capaci di cogliere l’attenzione dello spettatore e – soprattutto – la sua empatia.
Mescolando rimandi al Travis Bickle di Robert De Niro, alla voce acuta e infantile di Michael Jackson, Phoenix dà vita a una creatura gotica generata dai mali della società stessa. L’uomo viene indicato come padre putativo dalla feccia del mondo e da essa resuscito come demone salvatore, portatore di violenze, vendetta e ribellione. Angelo decaduto fino al cuore dei bassifondi, Joker apre le braccia all’oscurità del mondo elargendo, a ogni passo di danza, caos e morte.