Per il suo ultimo film Robert Zemeckis riprende le fila dalla vera storia dell’artista americano Mark Hogancamp, già raccontata nel 2010 nel noto documentario Marwencol di Jeff Malmberg: una storia di riscatto da un evento traumatico di eccezionale violenza, un’aggressione fisica che, oltre a rubare all’uomo salute fisica e gran parte della memoria, ha lasciato anche severe ripercussioni – stress post-traumatico, fobie, dipendenza da oppiacei, profonda insicurezza. Al riparo dalla vita quotidiana, c’è solo un mondo in cui Hogencamp (Steve Carell) si sente, almeno in parte, al sicuro: a Marwen, cittadina immaginaria ricostruita, in miniatura e con dovizia di particolari, nel giardino dietro la sua casa.
Se quattro mura sono la sua prigione – lasciata a malavoglia per poche, spesso circospette o fallimentari interazioni sociali – per “Hogie” Marwen è il luogo di riscatto: aiutato da sole donne – riproduzione in chiave eroica e sexy delle donne della sua vita, dagli amori lontani a chi gli ha prestato soccorso durante la riabilitazione – egli, nei panni di un valoroso soldato americano, si sente padrone di sé stesso. Benché non manchino, in questo mondo altro, gli echi violentissimi e trasfigurati della violenza subita: l’immaginaria cittadina belga è preda costante dei soprusi di vanagloriosi nazisti, pronti a tutto pur di turbare quei piccoli attimi di serenità tanto desiderati dal capitano Hogie quanto dall’artista in carne e ossa. E nel minuto mondo non manca, sotto le vesti di una strega malvagia, lo spettro della rovinosa dipendenza da antidolorifici e antidepressivi.
In effetti, Marwen non è propriamente la panacea di tutti i mali di Hogencamp. Certamente, è in parte un aiuto terapeutico, una valvola di sfogo dall’enorme potenzialità artistica che – di fatto – è stata poi riconosciuta. Combattere una difficile battaglia del cui dolore allo spettatore è dato solo a immaginare è cosa più complessa di quanto si possa rappresentare in un film che spinge molto sull’effetto fantastico, pure con un’attenzione lodevole verso il lato emozionale e umano.
L’impressione è che gli aspetti fantastici appianino forse un po’ troppo le reali difficoltà emotive che un percorso di ritorno alla vita possono costare. A sostegno di quest’impressione, il regista sceglie di dare un aspetto liquido ai due mondi, reale e immaginario, e dunque live action e CGI, eliminando progressivamente molti stacchi percepibili. È però questo, forse, un rischio di distacco, laddove l’esperienza cinematografica guadagna in andatura, sicura e fruibile, mentre quella partecipativa, relativa alla vita vera, che dovrebbe più facilmente smuovere a riflessione, è ostacolata da un fluire reale-immaginario che diventa spesso tutt’uno, senza una reale presa, in un tentativo di astrazione che rischia di ripetersi uguale a se stesso.
Il mezzo digitale quindi finisce per prendere il sopravvento visivo – con qualche strizzatina d’occhio alla carriera registica di Zemeckis godibile ma fuori posto – anziché veicolare al meglio lo spettro emozionale di una vicenda già di per sé altamente coinvolgente, e attuale nelle tematiche.
La liberazione dal male che affligge Hogencamp, alla fine, non corrisponde alla condanna dei suoi brutali assalitori, quanto più a una fugace consapevolezza di non poter reiterare la paura e mortificazione che lo affliggono, e – inoltre – a non dover più nascondere tendenze feticistiche e possibili dubbi circa la propria sessualità che furono causa del pestaggio. Così l’irta strada di ripresa diventa a un passo dalla fine un semplice sentiero, complice un romantico e infantile amore non corrisposto. Una presa di coscienza e di accettazione tale avrebbe forse meritato più spazio, anche laddove non si parla più di cronaca ma di elementi del tutto personali e intimi (su cui il film ad alterni momenti ritorna). Realtà e finzione infatti sono sì consonanti ad una “guarigione” affermativa, ma in una impennata tuttavia inverosimile: quasi che, concentrandosi a lungo sul mondo surrogato della realtà, per quanto terapeutico, si sia presa tardivamente consapevolezza di doversi concentrare in modo più esclusivo sull’uomo, quello in carne e ossa. Quell’uomo che della propria incredibile fantasia ha fatto un’arma pacifica contro i soprusi, uno strumento per risollevarsi e per diventare esemplare: una fantasia che il cinema di Zemeckis, questa volta, non è riuscito – pur con notevole sforzo immaginifico – a contenere.