Il buio della notte eterna a volte è così spesso, cieco, da lasciare persi anche chi tiene stretta la mano del proprio amato. il filo reciso della vita ne comporta un altro da cui è difficile slegarsi. E Tony (protagonista di After Life) quel filo non lo vuole lasciare andare. Non dopo averlo sentito stretto attorno a sé per 25 anni. Da una parte lui, dall’altra sua moglie, venuta a mancare per un tumore al seno. La perdita dell’amata è un tema ricorrente nella letteratura cinematografica e/o televisiva. E a ogni lacrima che scorre sul viso dello spettatore corrisponde il successo di chi ha raggiunto il proprio obiettivo. Ma a Ricky Gervais le lacrime sono solo una conseguenza, un punto finale da apporre alla fine di un’epopea da vivere nell’arco di sei puntate da 25 minuti ciascuna. Pochi personaggi, ambienti limitati, silenzi carichi di caustico umorismo con cui fare a pezzi la solidarietà altrui, e un mondo da scoprire, far proprio, assimilare secondo dopo secondo. È l’universo minimalista e per questo ancora più inebriante di After Life, serie televisiva disponibile su Netflix diretta, interpretata e scritta da Ricky Gervais.
Pur facendo a meno dei complici sguardi in camera e di tutti gli stilemi tipici del mockumentary, Ricky Gervais riesce a fare della sua cinepresa e dei suoi fogli di sceneggiatura complici vettori preferenziali attraverso cui tramutare i propri spettatori in testimoni oculari di una vita complicata, vinta dalla depressione, ma proprio per questo resa come (stra)ordinaria. Tony non è poi così diverso dal boss imbranato e odioso di The Office, o da quella sequela di fratelli cinematografici e televisivi nati dalla mente di Ricky Gervais. La loro è una vita che non offre nulla di speciale; sono uomini nati dal flusso di coscienza e infusi di vita da un alito di sarcastico cinismo. Sono outsider, sfigati, uomini complessi che trovano nell’autocommiserazione la loro arma distruttiva. In After Life Tony pensa al suicidio, ma la sua è un’azione relegata alla sfera della possibilità e della mera ipotesi. Dietro ogni singolo caustico atteggiamento c’è una proiezione alla vita, alla voglia di rinascere, di indirizzarsi verso quell’after-life che non ha nulla dell’aldilà celeste, quanto la voglia di cominciare da capo una nuova esistenza. Quello registrato dall’obiettivo di Ricky Gervais è un processo di elaborazione del lutto in tutte le sue fasi, da quelle più indicibili, piene di pensieri oscuri e nefasti, a quelle liberatorie. Eppure la sua macchina da presa non ha nulla di (psico)analitico; non pedina il proprio protagonista, non lo controlla o giudica; lo lascia libero di comportarsi come vuole, limitandosi a registrarne le offese, gli atteggiamenti passivi-aggressivi, o gli slanci di umana pietà. È una cinepresa, cioè, capace di trasformare il frutto dell’immaginazione del suo creatore in un uomo in carne e ossa, reale, imperfetto.
È un viaggio dell’eroe suddiviso in scaglioni quello di Tony; ogni sua giornata, così apparentemente uguale alle altre, mostra nella propria reiterazione quotidiana un piccolo cambiamento, sia esso un incontro causale, o un saggio consiglio (dolce e poetico il personaggio della vedova Anne interpretato da Penelope Wilton, già vista in Downton Abbey) che lo porterà al cambiamento interiore, liberandolo dai fantasmi del passato per abbracciare gli esseri umani del presente. La serie di Netflix è uno strano, ma attraente ibrido da cui è impossibile sottrarsi: da una parte si presenta come un composto dramma fatto di tensioni sopite costantemente sul punto di esplodere, in cui il dolore si concretizza in progressivi passi verso l’abisso della solitudine. Dall’altra è una giostra di scherni e gag al vetriolo, uno spettro dell’anima in cui si ride della propria miserabilità e di un’umanità descritta come la vera piaga del mondo. Si ride della morte, del lato oscuro di noi stessi per esorcizzare il dolore, in una catarsi liberatoria dal sapore universale. Ed è qui che si ritrova la genialità di Ricky Gervais. Nella pura semplicità, l’attore e regista crea una fiaba dei giorni nostri, con al centro un anti-eroe la cui avventura si rinnova nel tempo di una giornata per poi estendersi a una settimana. Vinci la giornata e vinci una vita: verrebbe da riassumere così After Life. Non c’è retorica, e nemmeno una facile strumentalizzazione della morte a favore di un mieloso sentimentalismo nell’opera di Gervais; non sarebbe nelle sue corde. È nel cinismo del suo protagonista che si deve ricercare la sua umanità perduta. Il viaggio compiuto in After Life è un percorso psicanalitico, un journey nel labirinto dell’inconscio tradotto in un linguaggio semplice, fatto di inquadrature ad altezza uomo pronte ad ampliarsi nel momento in cui Tony torna ad abbracciare la vita, includendo nel proprio raggio personale colleghi, famigliari, o semplici persone, tenute per troppo tempo a debita distanza.
La sua caduta all’inferno da cui tenta di trascinare tutto il mondo che lo circonda, lascia spazio a una timida ascesa al suo limbo personale. Nessun paradiso lo aspetta all’orizzonte, o perlomeno, non ancora; troppo eroica una conquista del genere per un personaggio che ambisce a un briciolo di empatia lasciata sullo schermo di un PC, tra gli ultimi messaggi di sua moglie Lisa, o negli occhi del proprio amato cane. After Life è una precettazione in formato seriale rilasciato da Ricky Gervais a chi non riesce a trovare un raggio di sole in una giornata di pioggia. Eppure uno sprazzo di luce, nascosto dietro le nuvole, c’è sempre. Basta sedersi ad aspettare e aspettare che l’insulto come arma difensiva si tramuti un semplice, sincero “grazie”.