È da poco arrivato su Netflix La scoperta. Il film è un prodotto originale della piattaforma ed è diretto da Charlie McDowell. Nel cast brillano in particolare modo Rooney Mara, Robert Redford e Jason Segel.
La scoperta appartiene ad un genere cinematografico mai ufficialmente classificato, ma ben riconoscibile. Lo stile, il budget, le ambizioni lo collocano nella nicchia dei film indipendenti da Sundance Film Festival. A rafforzare questa impressione contribuisce in particolare modo la presenza di Robert Redford (ideatore e presidente del festival) nel cast.
Che La scoperta voglia essere un lungometraggio ambizioso, fuori dai canoni mainstream, era chiaro sin dalla premessa, ma che fosse proprio questa velleità autoriale a trascinarlo a fondo è un dispiacere.
Siamo in un futuro prossimo: Thomas Harbor, un geniale scienziato, è riuscito a scoprire, e a provare, l’esistenza di un luogo oltre la morte. L’umanità, messa di fronte alle prove incontestabili, è nel caos. Nel giro di pochi mesi quattro milioni di persone si sono suicidate nella speranza di trovare pace nell’aldilà. La certezza di un altrove mette in crisi gli atteggiamenti con cui le persone, prima di allora, affrontavano la vita. Alla nostalgia dei propri cari defunti si sostituisce la voglia di un incontro dopo la morte, ai fatti della quotidianità viene attribuito un valore relativo. L’apatia, l’inquietudine, il relativismo esistenziale, gettano nella confusione un popolo sperduto attorno alla scelta di come vivere la propria vita.
La scoperta, al netto della sua originalità, segue da vicino la struttura narrativa di molti altre opere simili. Il generale viene ricondotto al particolare. Il fatto che sconvolge l’intera umanità, l’universale, viene raccontato focalizzandosi sul particolare, ovvero su un manipolo di uomini.
In Another Earth, ad esempio, la scoperta di una terra identica e speculare alla nostra, accendeva le speranze della protagonista che la portavano a rivedere le scelte della sua esistenza, nella speranza di poterle cambiare. In Coherence, di James Ward Byrkit, il passaggio di una cometa creava tasche dimensionali (ancora una volta l’evento generale) che costringevano un gruppo di amici invitati ad una cena ad affrontare versioni alternative di sé stessi (il tutto è quindi ricondotto ad un focus su pochi personaggi).
La scelta di tracciare dei confini che restringano l’insieme delle possibilità narrative è comprensibile: serve per gestire la storia, renderla fruibile emotivamente dallo spettatore. È un espediente che, il più delle volte, funziona più facilmente quando i personaggi sono costretti ad affrontare direttamente il mistero centrale. La scoperta scioglie invece ogni motivo di suspense nei primi minuti. Chiede allo spettatore una complicità che è difficile da accordare, data la velocità e la trascuratezza con cui vengono mostrate le “prove”. Una volta che viene introdotto il mondo distopico il film inizia quindi a crollare a causa di un’impalcatura fragile .
È difficile credere infatti che la prova dell’esistenza di un aldilà, senza che sia nota la sua essenza, la sua forma e le sue dimensioni, abbia come prima conseguenza un’epidemia di suicidi. Anzi, viene da pensare il contrario. Sapere che, alla fine della vita, ci sarà qualcosa d’altro, dovrebbe riempire di senso l’esistenza terrena o, per lo meno, moltiplicare gli interrogativi. Invece i protagonisti vagano con un senso di apatia, senza scopo e senza forti motivazioni.
Il tono della pellicola è incerto: inizia mostrando l’orrore, prosegue come una commedia e chiude con una spinta filosofica. Nessuno dei tre sentimenti riesce veramente ad andare a segno.
La scoperta fatica quindi a sfruttare tutte le possibilità date dall’accattivante concept. Va dato infine atto a Netflix di produrre sempre contenuti originali e dare spazio a giovani autori che, con poco budget, provano a innovare e ad introdurre nuovi stili. Non sempre sono un successo, ma i fallimenti valgono il tentativo.