Al Torino Film Festival di qualche anno fa abbiamo incontrato e intervistato l’attore francese Denis Lavant.
Qualche anno fa, al Torino Film Festival 2016 (quando ancora c’era la possibilità di andare fisicamente ad un festival) abbiamo avuto l’onore di incontrare e intervistare l’attore francese Denis Lavant, in occasione della presentazione, insieme all’amica regista Güldem Durmaz, il film fuori concorso “Kazarken“.
Denis Lavant è una vera e propria icona del cinema europeo contemporaneo, un interprete poliedrico e con uno stile personalissimo che è riuscito a rivoluzionare completamente il ruolo dell’attore, partendo in primis dai movimenti del corpo.
All’incontro con Lavant, si intuisce fin da subito di essere al cospetto di un artista che non si limita esclusivamente a interpretare una parte, bensì, come lui stesso afferma, di stare di fronte a un “comedian”. Denis Lavant è proprio un personaggio alla Chaplin, il suo indottrinamento è individualista, di strada, di ascendenza circense. Si muove e ammicca di continuo, quasi a essere parte della realtà atipica dei tanti personaggi interpretati in “Holy Motors” (2013). Stile bohèmien con doppio cappello, sotto di lana bucato e sopra bombetta, e anfibi scamosciati usurati parlano già da sé su che tipo di personaggio si ha davanti. Ci si proietta quasi nella dimensione di chi vive una propria identità artistica negando la frenesia del contemporaneo. La bellezza di vederlo fieramente comporre sms su un Nokia 3310 non aveva prezzo. Famoso soprattutto per essere il “feticcio” del regista Leos Carax, Denis Lavant si è fatto conoscere per alcune vere e proprie perle cinematografiche degli anni ’90: “Gli amanti del Pont-Neuf”, “Rosso Sangue” e “Beau Travail” di Claire Denis.
Proprio collegandoci al suo percorso cinematografico, siamo riusciti a fargli qualche domanda in merito.
In che rapporto è con il regista Leos Carax?
“È una storia molto particolare quella del rapporto che c’è tra me e Leos Carax, lui mi ha scelto per interpretare una serie di film e sono diventato letteralmente un riflesso dell’immagine che si era idelizzato dei protagonisti delle sue opere. Una responsabilità molto particolare, che mi porta gioia ancora adesso. Se dovessi definire il rapporto che ci lega, al di là del cinema, posso dire che non ci parliamo molto, anzi, non abbiamo proprio rapporti. Ma devo ammettere che è stato proprio grazie a Leos se ho iniziato a respirare il (vero) cinema, già dalle prime collaborazioni negli anni 90, fino ad arrivare a “Holy Motors” nel 2013. Sono quasi trent’anni che lavoriamo insieme, quindi, nonostante tutto, siamo amici che si stimano molto pur non avendo molta confidenza. Grazie a lui ho vissuto delle esperienze estreme, perché il livello che esige da me, quello umano e di coinvolgimento, è assai elevato. Un fratello che mi ha aperto una porta e che mi sottopone alla ricerca -continua- di un cinema di riflessione, spingendomi a fare cose che non avevo mai fatto, come lanciarmi da un paracadute, guidare una moto o ballare sulle note di David Bowie. Mi ha spinto veramente molto lontano a livello artistico. Mi ha permesso di ricercare continuamente una verità nell’interpretazione, ed è stato sicuramente un incontro prezioso il nostro. Me ne sono reso conto a posteriori, molto più tardi, in particolare l’ultima volta che abbiamo lavorato insieme, in occasione di “Holy Motors” a Cannes. Devo ammettere, però, che ogni volta che ricevo una proposta per un suo nuovo progetto mi allarmo subito. Chissà come si accanirà questa volta, penso. [Ride]”.
Essendo ricordato come attore feticcio di Leos Carax, qual è stata l’influenza che il regista ha avuto nel suo percorso cinematografico dopo aver lavorato con lui?
“Leos Carax mi ha permesso di fare cinema, fin da subito, a un livello molto alto. Ogni suo film è un capolavoro, proprio perché Leos ha una poetica di cinema precisa e pretende molto di più di quanto un comune regista pretenda da un attore altrettanto comune. Dopo aver esordito con lui, era necessario, per me, lavorare con autori che avessero un rapporto analogo rispetto al suo, soprattutto nell’immagine. Ho poi scelto ponderatamente autori che potessero rendere l’idea del cinema che mi rappresenta. Ho lavorato con autori che stimo molto, come Claire Denis per “Beau Travail” (1999) e Harmony Korine per “Mister Lonely” (2008).
Visto che si è parlato di Beau Travail, premettendo che il finale è uno dei più belli della storia del cinema, cosa rappresenta quel ballo nel finale? È una sorta di liberazione?
“Si chiama la danza. In Beau Travail è la seconda che mi è capitata nel mio percorso cinematografico. C’era già stata in passato una sequenza simile, in un film con Carax (“Rosso Sangue”, 1986, n.d.r.). Nel caso di Claire Denis, la danza era presente nella sceneggiatura, ma a metà, non nel finale. Non sappiamo bene cosa significhi, questo personaggio è anonimo, in nero, pronto alla morte. Una sorta di fantasia visionaria. Inizialmente la scena avevamo deciso di girarla in un locale notturno, abbiamo impiegato giorni a trovare uno adatto. La danza è stata totalmente improvvisata, abbiamo scelto sia io che Claire di girarla così, mentre quella con Carax era molto più coreografata e preparata in fase di montaggio, in questo caso è prevalsa l’improvvisazione assoluta, ho ascoltato la musica e ho cercato di lasciarmi andare, veicolando il mio corpo in un’espressione, che simboleggiasse una sorta di condensato di Gibuti. La danza che rappresentasse la miseria assoluta ma al tempo stesso la bellezza. Un luogo (Gibuti) dove i bambini vendono sigarette per la strada, dove le donne si prostituiscono, dove gli europei si comportano come ex coloni, per cui, c’è una durezza e asprezza nell’ambiente, ma al tempo stesso una bellezza che può essere metafora dei tessuti in cui sono avvolte le donne africane, che sono di qualità scarsa ma di colori armoniosi”.
Tutto questo trascorso cinematografico da attore non le ha, in qualche modo, fatto venire la voglia di cimentarsi come regista?
“Non credo proprio. Il regista non è una mansione che mi sento di fare o provare. La mia reale funzione è un’altra: io sono “le comedian”, potrei provare a dilettarmi come regista teatrale, ma non oltre. Per me sarebbe improponibile descrivere l’idea di sceneggiatura con una macchina da presa, non penso di aver la facoltà necessaria per farlo. Ci vuole troppa organizzazione per fare il regista. La mia creatività è espressa nella recitazione, nei movimenti del corpo e in un contesto ben preciso nella storia che mi viene proposta. Il lavoro del demiurgo non mi compete”.
Lei è un attore che può dire molto anche solo con la semplice espressione facciale: ci sono stati casi in cui, in un film, ha fatto prevalere l’espressività ai dialoghi?
“No assolutamente. Io arrivo da un tipo di recitazione dove usare l’espressività era quasi indispensabile, arrivare -col tempo- a dire la battuta, per me, è stata una vera e propria conquista. In passato, avevo lavorato ad un film muto dove usavo solo la mimica facciale, ho un bellissimo ricordo di quella esperienza, però dall’epoca non ho più fatto un’esperienza simile, per me è stata una vera e proprio conquista unire l’espressione al dialogo”.