Ora anche gli angeli mangiano con Bud… e il cinema piange la sua scomparsa.
Scrivere in questi momenti è più che mai difficile. Le parole si tingono di commozione, i ricordi trasudano di gioia, mentre il presente scivola via e scorre veloce come le pagine di un libro, quelle di un romanzo prezioso e bellissimo intitolato: il mio nome è Bud Spencer.
Definire, elogiare e omaggiare il grande Bud è, per me, un dovere morale e viscerale, un gesto spontaneo che in queste circostanze racchiude un valore speciale e pontifica il contributo, il lavoro e l’umanità di un’icona intramontabile del cinema italiano e non solo.
Nato a Napoli il 31 ottobre 1929, Carlo Pedersoli in arte Bud Spencer ha costruito la sua carriera con passione e umiltà, conquistando i primi successi nel mondo del nuoto e diventando, poco più che ventenne, il primo italiano a scendere sotto la barriera del minuto nei 100 metri stile libero.
Campione nello sport e atleta formidabile, Pedersoli decide negli anni ’60 di dare una svolta al suo cammino professionale e cambiare radicalmente la sua vita. E’ in quell’occasione che, ormai “stanco della vita ai Parioli” per sua stessa ammissione, inizia l’incursione nell’universo cinematografico, in una realtà nuova e affascinante che lo accoglie a braccia aperte e lo stringe per anni sotto la sua ala protettrice.
“Perché ho deciso di usare questo pseudonimo? Me lo chiedono in tanti! In realtà ho scelto Spencer perché adoravo Spencer Tracy e Bud perché bevevo la birra Budweiser.” Bastò questa breve dichiarazione per comprendere il pragmatismo, la determinazione e la semplicità di un uomo che si apprestava, insieme al suo inseparabile partner di set Mario Girotti, meglio noto come Terence Hill, a segnare un’epoca e coniare un vero e proprio genere legato indissolubilmente alle loro figure: il genere “di Bud e Terence“.
Ed è proprio così che, pellicola dopo pellicola, l’alchimia di coppia si consolidò naturalmente e la reciproca vocazione per la disciplina cinematografica, unita alla fisicità e al linguaggio corporale delle interpretazioni, portò i due attori a diventare eroi del quotidiano e ad entrare per sempre nelle nostre case. Il resto è storia.
Crescere in compagnia dei loro cult, di quegli strepitosi buddy movie all’italiana dall’alto tasso teatrale e delle commedie iperboliche intrise di slapstick, è stata una fortuna enorme, un privilegio condiviso da intere generazioni, che anche per un solo istante hanno incrociato lo sguardo dei loro beniamini dal monitor di un televisore o dallo schermo di una sala.
L’essenza che ha reso autentico e irriproducibile il cinema di Bud e Terence risiede non tanto nella costruzione narrativa o nei diversi film quanto nella presenza scenica dei due artisti, performer inossidabili e intrattenitori a 360 gradi, lesti nel rendere grottesca l’azione con scazzottate improbabili e irresistibili. I movimenti collaudati, i gesti sincronizzati all’unisono erano studiati alla perfezione come se ognuno fosse parte integrante dell’altro, con una maschera espressiva stampata sul volto – angelica e sorniona quella di Terence, corrucciata e bonaria quella di Bud – che divenne un marchio di fabbrica della comicità e del loro stile autentico. Perché Bud e Terence erano due anime libere, funamboli della risata, attori burloni, autoironici e geniali, che la settima arte elevò ad icone e simboli eccentrici della cultura nazional-popolare. Una coppia indivisibile, perché non ha senso scinderla o separala. Diventerebbe un’operazione praticamente impossibile.
Il modello del loro successo fu esportato in tutto il pianeta ma mai nessuno riuscì a emularlo, poiché nessuno era in grado di utilizzare gli ingredienti magici e la formula vincente di Pedersoli e Girotti, pionieri di un cinema anti convenzionale e stravagante che fece breccia nel cuore del pubblico.
Lunga e imprescindibile la sequela di lungometraggi che, a partire dagli anni Sessanta, si è susseguita e ha visto l’artista partenopeo recitare al fianco del collega Terence e di altri attori del calibro di Giuliano Gemma, Eli Wallach, Tomas Milian e Jerry Calà solo per citarne alcuni. Memorabili i sodalizi con i registi Giuseppe Colizzi, con il quale ha lavorato nel trittico western formato da Dio perdona… io no!, I quattro dell’Ave Maria e La collina degli stivali, e Enzo Barboni (con lo pseudonimo di E.B. Clucher) nei capolavori di genere Lo chiamavano Trinità…, nel sequel …continuavano a chiamarlo Trinità, e ancora in Anche gli Angeli mangiano Fagioli, I due superpiedi quasi piatti, Nati con la camicia, Non c’è due senza quattro e Un piede in paradiso. Tra le altre pellicole impossibile non ricordare Il Corsaro Nero, Si può fare… amigo, Torino Nera, … altrimenti ci arrabbiamo!, la saga di Piedone (Piedone lo sbirro, Piedone a Hong Kong, Piedone l’africano, Piedone d’Egitto), Lo chiamavano Bulldozer, Pari e Dispari, Chi trova un amico, trova un tesoro, Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre, Io sto con gli ippopotami, Banana Joe, Bomber, Cane e Gatto,Miami Supercops – I poliziotti dell’8ª strada, Superfantagenio e Botte di Natale.
E se Roald Dahl ha il suo Big Friendly Giant, noi possiamo vantare di avere avuto un grande gigante gentile, con l’inconfondibile barba nera e quella mimica facciale che sprigionava contemporaneamente bontà, sicurezza e sincerità.
Un campione assoluto, amato e idolatrato senza riserve, che resterà per sempre impresso nell’immaginario collettivo e continuerà a rivere nelle sue mitiche pellicole.
Ciao Bud!
Andrea Rurali
Articolo pubblicato anche su MaSeDomani.com
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