Se esiste un regista in Italia che riesce a trasmettere le sue emozioni interiori, le paure, le angosce e riesce a far parlare di sé e dei suoi film, nel bene o nel male, senza curarsi del giudizio esterno o delle impervie critiche della carta stampata è Paolo Sorrentino. Il suo coraggio, coadiuvato dalla voglia di osare e di esplorare nuovi orizzonti visivi, estetici ed artistici, è una delle virtù che senza dubbio è presente nella sua idea di cinema attraverso la quale, pellicola dopo pellicola, è riuscito a definire uno stile ben preciso, personale e riconoscibile, curando mirabilmente il valore delle immagini con una forte carica espressiva e seducente. A due anni di distanza dall’acclamato ‘La Grande Bellezza’, con cui trionfò agli Academy Awards nel 2014 conquistando il Premio Oscar per il Miglior Film Straniero, il regista partenopeo torna dietro la macchina da presa per dare sfogo ancora una volta al suo estro e alla sua creatività con abile minuzia, rigore e senso della perfezione. Per ricreare il suo mondo fatto di persone, luoghi, situazioni, sogni, illusioni, turbe e riflessioni ha deciso di mettere in scena una delle condizioni psico-esistenziali che da sempre rende l’uomo succube del tempo: la Giovinezza.
L’essere vittima dell’orologio biologico è stato uno dei motivi che ha spinto Sorrentino a voler affrontare una personale patologia mentale, quella di diventare schiavo del tempo, che lo “costringeva” a contare gli anni che lo separavano dalla morte. Con Youth è riuscito a superare questa ossessione e proprio grazie alla passione per ciò in cui crede fermamente, la settima arte, che ha trovato il suo riscatto. Questo traspare, l’amore per il cinema del cineasta che emerge nuovamente nella sua ultima fatica, una meravigliosa poesia scritta con immagini e parole, musica e fede, armonia e leggerezza, che ha il potere di emozionare e di coinvolgere empaticamente il pubblico, perché dietro ogni inquadratura c’è un riferimento all’universo dell’arte, fondendo tra loro le sei discipline in quella più giovane ed inconscia, la settima.
La Giovinezza è una metafora cinematografica ed esistenziale che si materializza con la storia di due vecchi amici che si ritrovano in vacanza, durante la primavera, in un lussuoso albergo situato nello scenario rilassante e mozzafiato delle Alpi svizzere. Fred (Michael Caine), un compositore e maestro d’orchestra in pensione e Mick (Harvey Keitel), un regista in crisi creativa ma ancora in attività, condividono solo le ‘cose belle’ che hanno vissuto e all’alba degli 80 anni sono consapevoli che il futuro davanti a loro si sta esaurendo velocemente. Osservando con curiosità ciò che accade agli ospiti dell’hotel, tracciano un bilancio della loro vita. Sono spettatori affranti e sbalorditi, scrutano la quotidianità con gli occhi di chi ormai sembra non riuscire a provare più nulla. Insieme assistono ai litigi dei loro figli sposati (Rachel Weisz è la figlia di Caine) all’entusiasmo dei giovani collaboratori di Mick alle prese con un finale (del film) ancora da scrivere, ma anche alla permanenza di un imbolsito Diego Armando Maradona il cui fisico atletico è un lontano ricordo del passato. E poi ancora, per la serie ‘metti una sera a cena’, si imbattono in una coppia di anziani che praticano il silenzio in pubblico e in un giovane attore (Paul Dano) legato all’etichetta di un iconico robot interpretato nel passato, fino ad arrivare al giorno in cui rimangono incantati al cospetto di una splendida e statuaria Miss Universo (Madalina Ghenea) che dona loro il paradiso dei sensi mostrandosi senza veli in piscina. Ma mentre Mick è tormentato dalla sceneggiatura del suo ultimo film che pensa sarà anche il più significativo della sua carriera, Fred è alle prese con la corte serrata della regina d’Inghilterra che vuole ad ogni costo vederlo dirigere le sue ‘Canzoni Semplici’ in un concerto in occasione del compleanno del principe Filippo.
Commozione e leggerezza, battezzata come “una grande tentazione, una sottile perversione” sono le due anime del film che scandiscono il ritmo e la narrazione. Lo spirito spensierato del Sorrentino post-Oscar, tacciato da alcuni per la sua vanità esponenziale e per il suo spavaldo egocentrismo, dimostra in realtà di essere un inesauribile esploratore dell’avvenenza, della bellezza più smodata, del virtuosismo delle inquadrature, dell’ermeneutica dell’immagine. La ricerca costante della perfezione emerge nel rapporto ironico tra i due i protagonisti Michael Caine e Harvey Keitel, che Sorrentino riesce a rendere ancora più straordinari inserendoli in uno schema classico da ‘buddy movie’ in stile Jack Lemmon e Walter Matthau, che poi vira su una dimensione più drammatica e autoriale mettendo a nudo la loro essenza, quella di due persone che si sentono vecchie perché non sono più in grado di provare emozioni e rincorrono goffamente quella giovinezza fisica ed esteriore, anziché riconquistare quella mentale e più sbarazzina persa con il tempo. Tra aforismi ‘letterari’ e splendide citazioni al cinema del passato, con l’emblema di 8 ½ di Federico Fellini che riecheggia nella mente del regista in una sfilata celebrativa di fotogrammi con le dive immortali dello star-system (Marylin Monroe, Marlene Dietrich, Jane Fonda, qui nei panni della star Brenda Morel) e le muse del neorealismo italiano (Giuliana Mangano, Anna Magnani e Sofia Loren), il film apre ad una visione totale dell’arte, dove pittura e musica elevano l’opera all’apice della sua ‘grande bellezza’. Da una città magnifica e sfarzosa come Roma dove Jep Gambardella inseguiva la sua ombra tra le vie quiete e desolate alla ricerca di sé stesso, in Youth veniamo trasportati tra le vallate tranquille e rilassanti di Davos e del suo Schatzalp Hotel (lo stesso citato da Thomas Mann ne La Montagna Incantata), dove i rumori della natura e le note distensive ed imponenti del compositore David Lang, mescolate con contrappunto a canzoni pop ed electro-dance (ma anche a una divertente parodia di Paloma Faith), risultano le vere protagoniste del film, adoperate per dare vigore e esaltazione alle scene topiche, che lasciano spiazzati gli spettatori con il loro impatto diretto, destabilizzante e profondo (da nodo alla gola). Toccante la parentesi a Venezia di Michael Caine che torna in laguna dopo anni per ritrovare (non vi sveliamo chi) quella semplicità d’animo che aveva smarrito con il passare del tempo. Anche qui non mancano i riferimenti al Gustav von Aschenbach di Luchino Visconti in Morte a Venezia – la figura di Thomas Mann ricorre di nuovo in quanto autore del romanzo La Morte a Venezia) – con il quale il personaggio di Caine condivide, oltre alla professione di compositore, non pochi scheletri nell’armadio.
L’esigenza di esaltare ogni singolo frammento del lungometraggio e immortalarlo come se fosse un dipinto realistico e quasi barocco, una fotografia vivida, un singolo tassello di una costruzione più vasta, rappresenta la volontà di mettersi in gioco e di andare oltre, senza dimenticare mai il passato. Non è un mistero che il costrutto di Sorrentino sia fondato sui suoi idoli Federico Fellini, Martin Scorsese, Diego Armando Maradona e i Talking Heads (che ha ringraziato sul palco degli Academy) ed grazie a loro che continua a trovare l’ispirazione per generare ogni volta qualcosa di nuovo, ma mai diverso, affinché la sua firma rimanga riconoscibile ed autentica. Certo, ci sarà sicuramente chi avrà la presunzione di criticare Sorrentino per essere il solito spocchioso, superbo ed arrogante che ha creato l’ennesimo film banale e insensato, ma denigrare un’opera di questo genere è come affermare, con superficialità, che i quadri di Jackson Pollock non sono altro che schizzi sterili di colore e materia cosparsi su tela. Una blasfemia col sapore dell’invidia, un’offesa gratuita fatta per puntare il dito verso quegli individui che fanno arte e mirano all’eccellenza, proprio come Paolo Sorrentino.