Non si può certo dire che The Signal (2014), il precedente lavoro di William Eubank (classe ’82), non sia riuscito ad attirare le dovute e meritate attenzioni.
Il film in questione si presentava come un godibilissimo sci-fi in salsa action, fresco e intelligente, che collocava il suo manipolo di giovani protagonisti nel bel mezzo di un intreccio dai risvolti decisamente inaspettati.
Giunto alla sua terza pellicola da regista (in numero maggiore quelle che lo hanno visto nel ruolo di direttore della fotografia), Eubank può contare su un budget senza dubbio più elevato, oltre che su un cast di tutt’altra caratura (Kristen Stewart, Vincent Cassel e T.J. Miller su tutti), ma è lecito chiedersi se queste risorse sarebbero potute essere sfruttate in modi migliori.
Rispolverando una classica ambientazione di tipo sottomarino, sulla scia di glorie del passato come The Abyss (1989) o il sottovalutatissimo Sfera (1998), Underwater sembra invece guardare più all’Alien (1979) di Ridley Scott per costruzione della tensione, atmosfere e caratterizzazione dei personaggi.
L’androgina Norah Price di Kristen Stewart, inquadrata perennemente in biancheria intima anche in momenti che richiederebbero tutto un altro genere di outfit, richiama a gran voce l’Ellen Ripley di Sigourney Weaver, senza però mai raggiungerne lo stesso livello di carisma e spessore.
Il sempre funzionale gioco del vedo/non vedo si presta bene a scenari di questo tipo, dove una chiara visibilità non è quasi mai una garanzia; eppure tutto ciò che ostacola lo sguardo dello spettatore sembra intenzionale solo di rado.
Eubank sceglie di far partire la sua storia “in medias res”, evitando inutili preamboli a situazioni con cui il Cinema ci ha fatto entrare ormai in stretta confidenza (grazie al cielo!).
Difficile perdersi in una trama così lineare: un team di operai addetti al mantenimento di una base sottomarina – costruita con lo scopo di supervisionare la trivellazione della superficie terrestre (si suppone per l’estrazione di petrolio) – risvegliano per errore un’antica creatura che inizierà a dar loro la caccia.
Gli ingredienti per un po’ di sano divertimento ad alta tensione e senza troppe pretese ci sono tutti; ciononostante, gli oscuri fondali marini sono deficitari di una fotografia incapace di restituirne l’indiscutibile fascino senza inciampare nel dilemma dell’offuscamento e le frequenti scene d’azione – raramente credibili se accostate alla pressione tipica di quelle profondità – soffrono di una regia insicura e confusionaria che ostacola la comprensione anche delle più semplici dinamiche narrative, finendo con l’annoiare piuttosto che coinvolgere.
La sceneggiatura di Brian Duffield e Adam Cozad, incaricati di raccontare il “pellegrinaggio” dei protagonisti da un Punto A a un Punto B (con conseguente Punto C), suggerisce più una trama di tipo videoludico, in cui la risoluzione di un guasto tecnico porta irrimediabilmente al verificarsi di un problema di egual natura (titoli come Dead Space o Alien: Isolation ne hanno fatto un vero e proprio successo commerciale).
Quando un filo conduttore così lineare risulta difficile da seguire, dal momento che le motivazioni che spingono i suddetti personaggi non vengono mai esplicate, viene meno anche la componente del mero intrattenimento.
Se a questo aggiungiamo la totale mancanza di elementi utili alla costruzione di una solida mitologia di fondo (in primis, il mistero legato alla natura stessa della creatura), non rimane veramente più nulla a cui aggrapparsi.
Chiaro è l’intento di dar vita a un sano prodotto di Serie B che intrattenga e diverta con un mix tra il serio e il grottesco – ancor prima di far scaturire domande o riflessioni di varia natura – ma, tra personaggi monodimensionali, improbabili soluzioni drammatiche (il coniglietto di peluche, sigh!) e dinamiche ai limiti della comprensione, troviamo conforto unicamente nell’efficace spunto “lovecraftiano” dell’ultimo atto.
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