Orso d’Argento, gran premio della giuria alla 68ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, arriva nelle sale italiane il film polacco “Mug -Un’altra vita“.
Il “ceffo” del titolo è Jacek, giovane operaio pieno di vita che trascorre le sue giornate in un piccolo paese della Polonia meridionale tra il lavoro, la fidanzata, il suo cane e la passione per l’heavy metal. Un giorno, però, a causa un brutto incidente, viene completamente sfigurato in volto ed è costretto a sottoporsi ad un delicato intervento di trapianto facciale che gli cambierà la vita per sempre.
I temi affrontati dalla regista (e co-sceneggiatrice) Malgorzata Szumowska, già nota nel circuito festivaliero europeo con opere come “Elles”, “In the name of…” e “Cialo“, sono quelli che hanno caratterizzato la sua intera filmografia, dalla vita nella provincia polacca, alla crudeltà della gente e delle istituzioni cattoliche, fino all’emarginazione sociale.
“Mug” è in sostanza una parabola allegorica dall’atmosfera fiabesca, che alterna momenti malinconici e disperati ad altri più divertenti (esilarante la scena del tentato esorcismo) a cui fanno però da sfondo due tra gli eventi più importanti della storia recente della Polonia: la costruzione nella cittadina di Świebodzin della più grande statua di Cristo Redentore al mondo (più alta di quella di Rio de Janeiro) e la prima operazione di trapianto facciale del Paese.
L’aspetto che forse va più sottolineato dell’intera pellicola è la ricerca di uno stile. La scelta di limitare la messa a fuoco alla sola porzione centrale dell’inquadratura è audace, a tratti perfino stimolante, ma alla lunga distorce l’attenzione dello spettatore, spingendolo troppo spesso ad interrogarsi circa la sua giustificazione estetica e teorica. Estremamente definito, d’altro canto, è il rapporto di contrapposizione dei volti dei protagonisti della storia: quello deforme e pieno di umanità di Jacek e quello fiero, ieratico della statua di Cristo si pongono agli estremi di uno spazio popolato da visi sfocati, in una penombra di superficialità e ipocrisia.
Nonostante la ricerca di un’identità non ordinaria ed il tentativo di evitare stereotipi e banalità sull’argomento (molto più nella forma che nel contenuto, bisogna dire), i troppi liricismi non funzionali rendono “Mug” un’opera godibile, ma che lascia un po’ di amaro in bocca per la sensazione che potesse essere molto più incisiva.