Per ammissione dello stesso Ken Loach, Io, Daniel Blake (2016) sarebbe potuto essere l’ultimo film del regista britannico. Sarebbe stato un finale coi fiocchi, la ciliegina sulla torta di una carriera pressoché impeccabile e la degna conclusione di un discorso cominciato circa un cinquantennio prima. Ma così non è.
A pochi anni di distanza, infatti, ecco l’ennesimo pugno nello stomaco, sceneggiato dal fedelissimo Paul Laverty. Sorry we missed you è un’opera esplicitamente legata alla precedente, quasi a costituire un dittico complementare. Quella di Daniel Blake era una Newcastle impenetrabile, in cui il protagonista era soffocato dall’assenza degli affetti familiari e dalla disperata ricerca di aiuto da parte dello Stato di fronte all’impossibilità di trovare un lavoro. Qui ci si trova di fronte ad uno scenario diverso. Ricky e la sua famiglia combattono contro i debiti dopo la crisi finanziaria del 2008; quando gli viene offerta la possibilità di lavorare come corriere per una ditta in franchise la situazione sembra in procinto di svoltare, ma la realtà si rivelerà ben più complicata del previsto.
La coppia formata da Loach e Laverty non ha paura di esporsi neanche questa volta e mette in scena una feroce critica delle nuove tipologie di sfruttamento legate ai modelli della gig economy, del lavoro “autonomo” o a chiamata dalle agenzie. Se l’illusione di indipendenza e di lauto guadagno sono temi ricorrenti, mai come in questo film viene posto al centro dell’attenzione il ruolo della tecnologia. Ciò che dovrebbe semplificare e assistere il lavoratore nello svolgimento delle mansioni gli si ritorce brutalmente contro: l’uomo è obbligato a seguire tempistiche e ritmi (quasi sempre massacranti) dettati dal computer, in un sistema integrato onnicomprensivo che non ammette errori né rallentamenti.

Le questioni che emergono dal film, in maniera neanche troppo implicita, sono le stesse che si pone chiunque è inserito in un contesto del genere: un modello di questo tipo è sostenibile? Quanto si è disposti a rischiare in termini di salute e rapporti personali pur di ottenere un salario decente che permetta un minimo di indipendenza? Fino a che punto ci si può spingere? Le risposte di Sorry we missed you sono tutt’altro che confortanti.
Spesso, quando ci si appresta a vedere un film di Ken Loach, si ritiene di essere preparati, esperti e addirittura si storce un po’ il naso convinti di sapere già tutto dell’esperienza che si sta per vivere. E ci si sbaglia alla grande. Lo spettatore, qualunque sia il ruolo che svolge nella propria vita, viene chiamato direttamente in causa e la corazza che si costruisce viene frantumata da un’ondata emotiva che non si può contenere.
Sarebbe però semplicistico ridurre la forza del film all’attualità delle problematiche affrontate. Qualità della scrittura, precisione della messa in scena e sincerità nella performance degli attori sono elementi imprescindibili di un modo di raccontare il presente di cui c’è, ancora e forse più che mai, assoluta necessità.