quello che non so di lei recensione
Emmanuelle Seigner ed Eva Green in una foto di Quello che non so di lei
Alcuni libri sembrano scritti per venire adattati al cinema da un preciso regista: Da una storia vera è uno di questi.
Olivier Assayas, alla sceneggiatura, si fa artefice dell’incontro tra la penna di Delphine de Vigan, protagonista del suo stesso romanzo, e le ossessioni di Roman Polanski. La trama di Quello che non so di lei (questo il titolo italiano dell’adattamento cinematografico) racchiude infatti molti temi cari al cineasta polacco. La Delphine personaggio è una scrittrice all’apice del successo, che sembra però avere esaurito la forza creativa. Quando Elle, una conturbante ammiratrice, entra nella sua vita, si apre per la donna un nuovo spiraglio di luce. Ma chi è questa misteriosa amica? È reale o è la proiezione psichica di un personaggio mai nato?
Quello che non so di lei inizia come una commedia a tinte dark, e prosegue come un thriller psicologico. È un film a fuoco lento, richiede una buona dose di attenzione allo spettatore, ma incalza man mano che si avvicina alla conclusione. È chiara l’intenzione di puntare in alto: sono infatti molteplici gli strati di lettura e i rimandi simbolici. L’uso insistito della soggettiva, sin dalle prime inquadrature, sostituisce la prima persona del romanzo e suggerisce l’interesse del regista nell’indagare in profondità i processi psichici che innescano la creatività. Il tema del doppio, specchio delle paure, ma anche confortante amico, ritorna insistente nel film, così come quello della solitudine. Gli artisti, secondo Polanski, sono come la protagonista: persone in esilio, seppur costantemente circondate dalla folla.
da una storia vera
Emmanuelle Seigner e Eva Green in un’immagine del film di Quello che non so di lei
Nonostante ciò, Quello che non so di lei non riesce ad andare oltre la superficie della sua indagine. Polanski rappresenta ossessioni già affrontate dal cinema contemporaneo, riprendendone le immagini e le sensazioni, senza però riuscire a trovare una sua originalità. Fa specie vedere, nell’arco di 12 mesi, un autore come Aronofsky che riprende e omaggia il Polanski di Rosemary’s Baby nel suo Mother!, con il coraggio di osare e sbagliare, di irritare lo spettatore e sposarlo con soluzioni aggressive. L’originale, il maestro, si limita invece con quest’opera a lavorare di mestiere, senza rischiare di turbare chi guarda, o anche solo di creare un prodotto destinato a restare.
L’abilità nella costruzione della tensione, marchio di fabbrica del regista, resta intatta, ma non basta a salvare un progetto che non riesce a graffiare, troppo lungo e compiaciuto. Come Delphine ha esaurito la sua musa, così anche il film viene schiacciato dal peso di essere nato da un autore che, forse, ha ormai raccontato tutto.