Perché Fleabag con Phoebe Waller-Bridge è una serie da non perdere

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Phoebe Waller-Bridge agli Emmy Awards 2019
Sono già passati alcuni mesi dall’uscita della seconda stagione di Fleabag. Probabilmente ormai sembrerebbe quasi superfluo commentare lo straordinario lavoro di Phoebe Waller-Bridge, il cui valore è stato ampiamente riconosciuto, sia dalla critica sia dal pubblico, e premiato con ben quattro Emmy Awards lo scorso settembre. Invece, come ogni opera di grande qualità, leggibile a più livelli, Fleabag regala molteplici spunti di riflessione su cui poter continuare a scrivere.
Fleabag (Phoebe Waller-Bridge) è una trentenne londinese in crisi alle prese con un lutto, una famiglia disfunzionale e un’ampia serie di disordini emotivi. L’ormai largamente dibattuto espediente della “rottura della quarta parete” trascina letteralmente lo spettatore nelle vicende della protagonista, forzandolo a vedere le cose dal suo punto di vista. Un punto di vista carico di sarcasmo e di humour tracciato magistralmente attraverso una scrittura brillante, estremamente tagliente e piacevolmente asciutta.
Così dopo aver visto Fleabag alle prese con un’esistenza in balia di quella che sembra essere una spirale autodistruttiva la ritroviamo, nella seconda stagione, determinata a trovare il modo di avere un maggiore controllo sulla propria vita e un migliore ascendente su quella dei suoi cari. La ritroviamo pronta ad accettare di meritare di essere amata. Se tutto questo non fosse sufficiente, come è già stato scritto tante altre volte, questa serie ci regala anche uno schietto e dissacrante ritratto delle nevrosi e delle contraddizioni della borghesia londinese. Ma la grande forza di Fleabag è probabilmente la sua capacità di trattare in modo acuto un tema universale, vale a dire il senso di inadeguatezza che ogni essere umano prova.
In una società che impone come canone la perfezione si fa di tutto per costruirsi un’identità il più coerente possibile con questo modello, sopprimendo a più livelli, e più o meno consapevolmente, i tratti devianti della propria personalità. Ma cosa succede se non si vuole, o non si riesce, a sopprimerli? Ci si trova ad essere catalogati come soggetti problematici. Fleabag lo è: è la classica pecora nera, e ne è perfettamente consapevole; sa di non essere capace di agire come la maggior parte delle persone che la circondano e questo la fa sentire incompresa, sbagliata e, peggio ancora, sola.

Fleabag: “O anche gli altri si sentono un pochino così, ma non ne parlano, o io sono completamente e fottutamente sola.”

Stagione 01 episodio 06

La spirale autodistruttiva fatta di comportamento sociale inappropriato, abuso di alcolici, relazioni sbagliate e sesso occasionale non è altro che un modo per annichilire il dolore che prova costantemente a causa della propria condizione. E il caustico humour di Phoebe Waller-Bridge, oltre a far sorridere il pubblico, mima quel sarcasmo con cui si difende chi si sente in una condizione di fragilità. Ma la realtà è che Fleabag non è sola, i personaggi che la circondano – la sorella perfetta (Sian Clifford), il viscido cognato (Brett Gelman), il padre inetto (Bill Paterson) e la perfida matrigna (Olivia Colman) – gli stessi che la fanno sentire sbagliata, e che sembrano inserirsi tanto bene nella normalità del salotto borghese in cui la storia è ambientata, semplicemente si concedono il lusso di non ammettere di avere problemi analoghi e adeguano il loro comportamento a quello socialmente accettato, vivendo all’atto pratico una vita di grande frustrazione.
Si potrebbe quasi dire che Phoebe Waller-Bridge usa l’espediente della “rottura della quarta parete” proprio per sottolineare che la protagonista non è mai veramente sola, ma al contrario tutto il pubblico è suo complice essendo direttamente invitato ad entrare in empatia con lei. Alla fine della prima stagione vediamo Fleabag toccare il fondo, ma quella spirale autodistruttiva in cui lei stessa si è gettata le regala la consapevolezza che non si può mettere a tacere il dolore esistenziale con altro dolore, e questa costituisce la svolta a cui si assiste nella seconda stagione. Dopo un periodo di allontanamento di circa un anno da tutte le persone che l’hanno fatta sentire inadeguata, Fleabag inizia a mettere ordine nella propria vita, decisione che coincide col momento in cui s’invaghisce del prete cattolico (Andrew Scott) che dovrà celebrare il matrimonio di suo padre con la matrigna.
La storia d’amore in stile “Uccelli di rovo”, che si prospetta palese sin dal primo episodio della seconda stagione e che tanto ha affascinato il pubblico della serie – evidentemente romantico -, conferma quanto l’attrice britannica sia narrativamente brillante. Fleabag trova la sua anima gemella in un prete, che per giunta ricambia il suo amore, anche se questo dovrà per ovvi motivi essere negato. Ma se ci si allontana dal semplice svolgersi degli avvenimenti e lo si mette in prospettiva, questo amore non è altro che una metafora dell’amore per il prossimo.
Entrare in comunione con qualcuno che necessariamente la accetta per quello che è, che perdona i suoi innumerevoli errori e la ama per la sua inadeguatezza, le dà la forza di usare il punto di vista che le regala la sua condizione di outsider, e l’esperienza diretta del dolore, per accettare sé stessa e così comprendere – e aiutare – gli altri, spingendoli ad avere il coraggio di abbandonare quella condizione di frustrazione a cui la pretesa della loro normalità li teneva legati.

Papà: “Credo che tu sappia amare meglio di tutti noi, ecco perché trovi tutto così doloroso”
Fleabag: “Non lo trovo doloroso”

Stagione 02 episodio 06

Alla fine di questo percorso Fleabag è finalmente consapevole, nonostante la sua “devianza dalla media statistica”, di meritare di essere amata, non solo da un prete molto sexy, ma soprattutto dalle persone della sua vita, e non avendo più bisogno dell’empatia del pubblico la “quarta parete” si ricostituisce definitivamente e lei si allontana nella notte verso una nuova vita.
Phoebe Waller-Bridge grazie a Fleabag è oggi universalmente riconosciuta come una delle commediografe e sceneggiatrici più talentuose e promettenti del panorama europeo, e ne ha pieno titolo. La sua capacità di trattare con grande freschezza temi contemporanei è innegabile, ma quello che fa veramente la differenza è la sua capacità di creare una connessione diretta tra uno show televisivo e la drammaturgia teatrale trasformando quella che a primo acchito sembra essere una specie di Bridget Jones in un’eroina classica, attraverso l’abile costruzione del legame tra un personaggio banale e l’universalità senza tempo della condizione umana.