Dopo quasi otto mesi dalla presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia 2017, all’interno della sezione Cinema nel Giardino, arriva nelle sale italiane Manuel, esordio nel lungometraggio di finzione del regista romano Dario Albertini.
Sebbene sia a tutti gli effetti il suo primo fiction film non bisogna commettere l’errore di pensare ad Albertini come ad un debuttante in senso assoluto: le regie documentaristiche che ha alle spalle sono infatti notevoli ed è proprio da una di queste produzioni (La Repubblica dei Ragazzi, opera del 2015 che testimonia la vita all’interno di una comunità per giovani privi di sostegno familiare) che Manuel prende le mosse.
Manuel (interpretato da un credibilissimo Andrea Lattanzi) è un ragazzo che compiuti i diciotto anni lascia l’istituto per minori nel quale ha trascorso gran parte dell’infanzia. Si ritrova così catapultato nel mondo esterno, solo e deciso a prendersi cura della madre affinché possa uscire dal carcere in cui è rinchiusa da cinque anni e scontare il resto della pena agli arresti domiciliari.
La grande forza del film è trovare il punto di equilibrio plausibile tra un’“urgenza del reale” e la “tensione al simbolico”. La sete di realtà si manifesta innanzitutto nella scelta di raccontare nel modo più essenziale ed asciutto possibile il mondo della periferia e delle relazioni interpersonali all’interno di essa (temi che, con toni differenti, ritroviamo in gran parte del cinema italiano degli ultimi anni, basti pensare a film come Piccola patria, Cuori puri, A Ciambra, ma anche Come un gatto in tangenziale).
La provenienza dall’universo documentaristico è evidente anche in svariate scelte formali: alcune volte la camera è fissa per diversi minuti e riprende ciò che accade senza stacchi o particolari logiche narrative, altre volte segue il protagonista di spalle, “pedinandolo” nei suoi numerosi spostamenti, altre ancora si sofferma su dettagli e situazioni più di quanto si è abituati nel cinema commerciale. Una lettura solo di questo tipo sarebbe però troppo semplicistica: l’instaurazione di un dialogo intenso con il territorio e la tendenza al localismo rappresentano solo un aspetto di un’aspirazione comunicativa più incisiva. Si pensi, ad esempio, ai luoghi, mostrati con accuratezza ma mai definiti geograficamente con precisione (significativo che la casa in cui va ad abitare non abbia una via e noi capiamo che si tratta della periferia romana solo per l’accento del protagonista e i poster di Francesco Totti) o ai personaggi in cui Manuel si imbatte, sempre per un breve periodo di tempo, che, a tutti gli effetti, appaiono come una rappresentazione simbolica di pregi e vizi dell’uomo nella periferia.
Quello che parte come un racconto classico di formazione, con ostacoli da superare ed una maturità da raggiungere si risolve nel cortocircuito di un giro a vuoto, un’integrazione sociale che non ci è dato sapere se avverrà e un grido di libertà in procinto di liberarsi. Un’ottima partenza per un regista e un attore protagonista da cui è lecito attendersi un percorso importante.
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