MACBETH, la recensione del film con Michael Fassbender

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Photo: courtesy of VIDEA
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“Non sei senza ambizione, ma ti manca la crudeltà che deve accompagnarla.”
La storia del valoroso Macbeth è senza dubbio una delle tragedie più conosciute del bardo William Shakespeare. Il condottiero coraggioso e leale è un uomo combattuto, sedotto e ammaliato da una profezia che lo vede prossimo a diventare il nuovo re di Scozia. A manipolare la sua mente e contribuire alla sua ascesa, una moglie bramosa e crudele che lo porterà a conquistare il trono commettendo una serie di efferati omicidi che cambieranno profondamente il suo animo e lo getteranno in preda alla follia.
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L’operazione di adattamento cinematografico di Justin Kurzel, già pienamente effettuata nel corso dei decenni da maestri del cinema come Orson Welles, Akira Kurosawa e Roman Polanski, è distante dall’essere fedele al testo shakespeariano: l’approccio del regista risulta del tutto personale e visionario, nonostante in alcune circostanze viri troppo sulla reiterazione di un onirismo metafisico poco funzionale alla narrazione. Il film trova sviluppo in una messa in scena che rende la pellicola ‘atipica’ se paragonata alla sacralità di un’opera classica. Le oscillazioni, il ritmo dilatato, le inquadrature gelide, una fotografia caustica e mite, i personaggi che parlano a loro stessi rivolti direttamente al pubblico sono alcuni degli esempi di una ricerca di Kurzel di esplorare una via inedita, cercando di preservare i tratti canonici in uno scritto che si concede alle più disparate interpretazioni. Un tentativo, purtroppo non particolarmente riuscito.
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Considerevole la prova degli attori protagonisti che rappresentano i drammi e le complessità delle rispettive figure con un gusto raffinato e quasi teatrale. Sensuale e algida, la Lady Macbeth di Marion Cotillard è l’emblema di una donna distruttrice anziché iniziatrice: la sola “creatura” a cui riuscirà a donare la vita sarà lo stesso Macbeth, instillando il lui il tarlo della malvagità. La perfida consorte diventa così madre di un essere nutrito dal fiele, di un bambino (mostrato come visione durante il celebre monologo) che si fa uomo macchiandosi della colpa più atroce e di un sangue che non può essere lavato via poiché macchia lo spirito. Il Macbeth di Michael Fassbender, invece, ha il volto imperturbabile, lo sguardo ricolmo di pazzia e il cuore in balia di una metamorfosi distruttiva rivolta verso una pura e cieca malignità.
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Il paesaggio e l’ambientazione subiscono questo processo di mutamento: la Scozia desolata e fredda sta per scomparire e i toni del rosso prendono il sopravvento sulle note finali della vicenda, dove i duelli e i confronti perdono completamente il legame con il tempo e lo spazio, rimanendo sospesi su tinte purpuree di morte e sdegno.
Il male che si insinua in modo assillante, il senso di colpa e l’ambizione di un potere illimitato che mette le radici nelle pieghe fragili e sottili del pensiero umano fungono da filo conduttore ad una tragedia che, seppur non porta nulla di davvero originale, si cristallizza nella cinematografia del genere, regalandoci un prodotto discreto e onesto nella sua complessità.
Michela Vasini & Andrea Rurali

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