
L’horror non è mai stato il sangue, così come la fantascienza non è mai stata definita da oggetti scintillanti e meravigliosi. Il melodramma non è mai stato un fatto di lacrime e la commedia non si limita ad essere materia di risate. I generi, sia cinematografici che letterari, sono guidati e caricati di senso dai personaggi. L’arte che si riduce a pura forma, non me ne vogliano i più azzardati sperimentatori, è spesso vuota.
Perché il cinema possa essere dirompente serve potenza comunicativa, serve significato (o totale assenza di esso) che trasuda da ogni fotogramma, serve cattiveria, cinismo, ma allo stesso tempo serve amore per quello che si fa. Il resto, l’ingrediente che manca per un buon film, è tuttora un mistero.
Leatherface è arte senza cattiveria, forma senza sostanza. Passino i bellissimi trucchi che riproducono con precisione chirurgica ferite indicibili. Passi l’incredibile e apprezzabile velocità con cui si sviluppa la trama. Ma poi cosa resta?
Nonostante la forza dei suoi due registi Alexandre Bustillo e Julien Maury, Leatherface non è altro che una semplice idea trasposta in un film passabile. Raccontare le origini di nemici dal passato oscuro non è un’operazione semplice né tantomeno consigliata se si ha intenzione di proseguire, con immutato fascino, una determinata saga. Ne sa qualcosa l’Anakin Skywalker di George Lucas, la cui analisi del passato non ha giovato al carisma del personaggio. Ha subito un contraccolpo simile anche Wolverine, con il dimenticabile X-Men le origini – Wolverine (il discorso non vale per l’operazione a fumetti, molto più riuscita). E così via, l’elenco potrebbe proseguire.
