La nostra recensione della quarta stagione
della serie La casa di carta, disponibile su Netflix

Una sceneggiatura più è folle, più deve essere raccontata in maniera realistica, quasi fosse un incubo“; così affermava Alfred Hitchcock a proposito di Intrigo Internazionale. Ma nella quarta parte de La casa di carta quella pazzia che sfocia in realismo e sottile atto di denuncia caratterizzante le prime due stagioni, finisce per perdersi come una lettera in una bottiglia lasciata in mezzo al mare. Tutto riprende là dove si era interrotto nella terza parte, all’interno della Banca di Spagna con Nairobi colpita quasi a morte, ripristinando fedelmente difetti e mancanze; gli sceneggiatori con l’avvento di Netflix non hanno avuto tempo di migliorare gli errori di logica temporale, l’attenzione ai dettagli e all’introduzione di nuovi personaggi, mettendo alla rinfusa un puzzle fino a quel momento perfettamente completato. Tutto cade nell’inverosimile nella quarta parte de La casa di carta. Si perdono, cioè, le coordinate di plausibile realtà su cui si ergevano le prime due parti. Puntata dopo puntata, La casa di carta perde le proprie fondamenta, e come un effetto domino vede cadere a un ritmo sostenuto quelli che erano i punti forti del proprio iniziale successo.

La casa di carta 4 recensione
Nairobi in un’immagine della serie La casa di carta 4 recensione

I valori di resistenza e gli attacchi sociali che si celavano dietro ogni singola inquadratura lasciano spazio a una spettacolarità da cui lasciarsi (pre)dominare. La banda del Professore (Álvaro Morte) si fa pertanto complice di quel sistema a cui si ribellava nelle prime due parti: Nairobi, Helsinki, Tokyo, Rio e compagni, abbracciano il complesso meccanismo di successo e fama, perdendo di vista quell’atto di denuncia verso un governo mai abbastanza attento alle necessità del proprio popolo, e di un sistema economico pronto a facilitare i privilegiati a discapito dei più deboli; un intento nobile che rendeva interessanti le prime due parti anche da un punto di vista sociale, mettendo in secondo piano gli eventuali errori di realizzazione e scrittura. Tanto nella terza, quanto soprattutto nella quarta parte, ogni mancanza o fallace congiunzione di causa-effetto si fanno evidenti, e a nulla potrà il comparto spettacolare a fare da scudo, nascondendo ogni incongruenza come polvere sotto il tappeto. Il potenziamento del comparto visivo ha indebolito in maniera inversamente proporzionale quello di scrittura, generando un concatenamento di episodi forzatamente collegati tra loro nello spazio e nel tempo. Gli stessi colpi di scena vivono di una certa prevedibilità, e quando così non fosse, trovano nella loro realizzazione una forzatura tale da renderli inverosimili. Se le prime due parti basavano il proprio successo sul senso di rivalsa personale – senza per questo perdere di vista l’aspetto della verosimiglianza – le ultime due puntano sull’unione tra sub-plot romantici sempre più invadenti, e giochi temporali che per quanto affascinanti dal punto di vista spettacolare, cadono in ginocchio dinnanzi a quello logico.

La casa di carta

Da puzzle coinvolgente e di facile immedesimazione spettatoriale, La casa di carta si è tramutata in un gioco di puro divertimento, dove è l’occhio dello spettatore, e non la sua anima, a essere coinvolto nella messa in scena seriale. Le canzoni in italiano, le analessi verso un tempo perduto e del tutto ignorato nelle prime due parti, i romance e i cliffhanger altamente forzati, sono stecchini di legno fragili, e per questo incapaci di sorreggere il peso di una serie come La casa di carta. Da creatura bellissima e incantevole, La casa di carta si è tramutata in un essere seducente fuori, ma vuoto dentro; ci lasciamo attrarre da lei, entriamo nella sua rete talmente incasinata da perderci e uscirne confusi. Ma ciononostante, la sua visione crea comunque dipendenza; non possiamo farne a meno perché, proprio come il Professore, sa quale fila muovere e quali pedine spostare nel nostro inconscio. L’ultima stagione della serie realizzata da Álex Pina sfrutta appieno la nostra indole masochista di lasciarci confondere dalla bellezza esteriore, pur sentendo inaridire quella interiore, ormai ridotta a un foglio di carta bruciata.
Sappiamo che i flashback sono escamotage per allungare il brodo, senza per questo apportare alcun tipo di contributo in più all’avanzamento dell’intreccio (si pensi alle scene con protagonista Berlino, momenti di puro fan-service); sappiamo che la perdita di personaggi porteranno a nuove entrare nel cast e più potenti colpi di scena; sappiamo tutto, eppure continuiamo la visione perché non aspettiamo altro che le nostre aspettative trovino una conferma, nel bene e nel male.

La casa di carta 4 recensione
Pedro Alonso in un’immagine della serie La casa di carta 4 recensione

La resistenza di “Bella Ciao” ha lasciato, dunque, spazio alla conformità pop di “Ti Amo” di Umberto Tozzi. E così La casa di carta da una relazione bella, profonda, seppur breve, ha preferito trasformarsi in una storia abitudinaria, noiosa, in cui continuiamo a rimanere coinvolti per comodità, alla ricerca di quel vecchio brivido capace di riaccendere la passione.