
A 12 anni di distanza dal King Kong di Peter Jackson, il gorilla più iconico del cinema torna sul grande schermo in un nuovo lungometraggio che ne ripercorre le origini e ne esalta la mitologia.
1973. Un team eterogeneo di esploratori viene reclutato dalla Monarch, una potente società segreta, per compiere una missione su un’isola sperduta del Pacifico, inconsapevole dei pericoli e delle insidie che si celano in quel luogo misterioso popolato da terrificanti creature.
Concepito come un prodotto mainstream e slegato dalla struttura narrativa dei suoi predecessori, Kong: Skull Island è un monster movie ipertrofico e al tempo stesso iper-cinetico che mescola le atmosfere esplosive dei film di guerra con le dinamiche caotiche delle pellicole d’avventura, sfoderando con orgoglio e fierezza la sua anima da blockbuster.

Nel tentativo di omaggiare un capolavoro unico e irripetibile della storia della settima arte come Apocalypse Now, Jordan Vogt-Roberts cerca di calibrare la propria cifra stilistica e l’indirizzo estetico del film ricalcando l’opera omnia di Coppola per rielaborarla in chiave moderna. Il risultato, però, non è totalmente convincente: il citazionismo storico ad Apocalypse Now e i riferimenti all’universo di Jurassic Park donano alla pellicola una connotazione tipicamente vintage, dalla quale il regista non riesce mai a distaccarsi, restando troppo ancorato all’immaginario cinematografico degli anni ’80.
Con le ingenti risorse economiche e i mezzi a disposizione, Vogt-Roberts poteva offrire una visione più originale e indipendente al lungometraggio, restituendo alla vicenda una dimensione ‘romantica’ e sentimentale (come fece Jackson nel 2005) e dando maggiore spessore alla sceneggiatura.
