I tre colori di Julieta: la recensione del film di Pedro Almodóvar

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Julieta - Photo: courtesy of Warner Bros. Entertainment
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Il Poster Italiano di Julieta di Pedro Almodòvar
Il rosso acceso, l’azzurro, quasi blu, e il giallo.
Tre colori, tre personaggi, tre vite che si incontrano e si generano in Julieta, l’ultima fatica di Pedro Almodóvar presentata nella selezione ufficiale del Festival di Cannes 2016.
Proprio come nella scelta cromatica della fotografia, anche nella trama di Julieta ci sono tre protagonisti. Una madre, il rosso, in procinto di partire per il Portogallo e cambiare vita, allontanandosi per sempre da Madrid. Un incontro casuale, con un fantasma del passato, le farà riaffiorare ricordi ormai sopiti di antichi e misteriosi trascorsi. Julieta, questo il suo nome, sente il bisogno di rimettersi in contatto con la figlia (rappresentata dal colore giallo) ormai lontana, e di scriverle una lettera in cui confessarle la verità dietro alla loro improvvisa separazione. Ma c’è un altro individuo che tornerà a tormentare la memoria di Julieta, il blu, il suo primo marito. Che fine ha fatto l’uomo? E perché Julieta tenta in ogni modo di rimuovere il passato?
Almodóvar articola la sua opera attraverso il flusso dei ricordi della protagonista per parlare dell’abbandono, della mancanza e della ricerca della propria strada a seguito di un deragliamento della vita. E in questo, nonostante la pellicola non eluda alcuni difetti, è perfetto.
Il primo fotogramma riempie lo schermo di rosso, vediamo delle forme muoversi lentamente senza riuscire a decifrarle. Quello che sembra il petalo di un fiore si scopre essere il dettaglio di un vestito, e la storia comincia.
Un inizio eccellente per un film che, lungo tutto la sua durata, dà l’impressione di perdersi spesso nell’indecisione con cui riprende i ‘commedianti’. Nessuno dei tre colori prevale sullo schermo come nella prima inquadratura e, così, nessun personaggio ha la forza di diventare vero protagonista della storia. Questa scelta, o non scelta, provoca spaesamento e affatica lo sviluppo del racconto che naviga a vista, fermo restando la sua solida struttura tematica. La voglia di fare un cinema poetico, ma al contempo concreto, addensa la pellicola di metafore visive non sempre necessarie, di momenti ‘caricaturali’ o di dialoghi falsi, per quanto significativi.
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Julieta – Photo: courtesy of Warner Bros. Entertainment Italia
Il regista spagnolo parifica questo deficit di forma con una potenza assoluta a livello comunicativo. È eccezionale la capacità con cui, nel bellissimo finale, riesce ad essere diretto e traslare in parole tutto ciò che ha voluto trasmettere nelle immagini.
Non avrebbe guastato una maggiore originalità nella messa in scena e, quando le trovate registiche arrivano, non si può non pensare a quello che questo lungometraggio poteva divenire con un pizzico in più di coraggio. Invece il melodramma si fa a tratti troppo convenzionale e in parte artificiale. C’è una mano dietro alla vicenda, ma non sempre resta invisibile. Ma c’è anche molto altro in Julieta: c’è un salto temporale meraviglioso, con protagonista un asciugamano, per non parlare di un cervo in computer grafica (non all’altezza) e di un treno, allegoria della vita, in cui chi decide di scendere rischia di non scomparire mai dai ricordi di coloro che hanno condiviso il viaggio con lui.
Consigliato a: chi vuole andare oltre le mancanze di un film per ricercare il pensiero del suo autore.
Gabriele Lingiardi

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