IT
Senza nomi, senza descrizioni: It. Esso.
Un’entità malvagia che terrorizza i bambini di una cittadina, facendoli sparire uno a uno. Alcuni di questi, che formano il “Club dei Perdenti”, cercheranno di scoprire di cosa si tratti.
Una “pietra di paragone” nella bibliografia enorme di Stephen King, trasposto su piccolo schermo la prima volta nel 1990 e che ricompare – come il Pennywise protagonista – 27 anni dopo al cinema.
Andy Muschietti, reduce dall’apprezzabile, e per certi versi sorprendente, La Madre del 2013, riporta in scena IT e il suo clown mangia bambini Pennywise. Questa volta abbiamo una versione più fedele al romanzo e più spaventosa della miniserie del ’90 (arrivata in Italia nel ’93), quasi apertamente comica e funzionale a quella versione, interpretata da Tim Curry.
Cosa galleggia e cosa affonda?
Partiamo dalla superficie.
A livello visivo e narrativo questo It funziona bene, la fotografia curata (forse troppo, risultando a volte un po’ sterile) rende un gradevole effetto retrò, l’ambientazione anni ’80 consente di omaggiare e giocare con certi cliché del cinema di allora e il cast è praticamente perfetto.
Muschietti sembra inizialmente avere un’idea precisa della direzione in cui portare il film, ma man mano che si procede questa sensazione comincia a mostrare falle e a imbarcare acqua, affondando lentamente.
Il Pennywise di Bill Skarsgård è effettivamente terrificante, malvagio e perfido fino in fondo. L’attore svedese mette tutto sé stesso nel ruolo e centra gli obiettivi, ma il poco tempo che gli viene dato non è sufficiente a dargli il dovuto peso. La scelta forse vuole ricalcare quella di film come Nightmare – Dal Profondo Della Notte, in cui non era tanto Freddy Krueger a spaventare, quanto l’attesa di ogni sua comparsa. In IT però non c’è l’ombra della tensione che si poteva respirare nel classico di Wes Craven.
I momenti in cui le paure dei piccoli protagonisti si manifestano sono dei deja vu di una miriade di sequenze horror uguali, viste e riviste, mentre gli unici salti sulla poltrona sono affidati agli ormai onnipresenti “jump scares” che intasano ogni film di questo genere senza inventiva.
La sensazione è quella che la sceneggiatura iniziale di Cary Fukunaga (che originariamente doveva anche dirigere il film), su cui si basa questa versione, sia stata annacquata, perdendo per strada frammenti che avrebbero reso molto più memorabile la parte orrorifica della vicenda, donando maggior mordente a tutto il film.
L’alchimia tra i vari protagonisti buca lo schermo ed è il vero punto di forza del lungometraggio. Anche gli interpreti del Club Perdenti sono perfettamente in parte e funzionali: da Bill (Jaeden Lieberher), determinato e alla ricerca dello scomparso fratello minore, a Richie (Finn Wolfhard, reduce da Stranger Things), che deve sempre spezzare la tensione con pessime battute a cui nessuno ride, tutto il cast è bilanciato e gestito egregiamente.
Purtroppo cercare di catturare ciò che rese grandi film come I Goonies o Stand By Me non basta…
Il contorno di personaggi davvero troppo stereotipati (caratteristica, purtroppo, di quasi tutti i lavori di King e dei loro derivati) rende tutto molto prevedibile.
Dal bullo troppo bullo al padre molestatore troppo viscido, alla madre ipocondriaca grassa e trasandata, la sagra del cliché porta il film alla noia piuttosto che alla tensione, impedendo di godersi fino in fondo i buoni momenti dei Perdenti.
Alla fine, e questo è il vero problema, non si ha mai una vera sensazione di pericolo, non si avverte il peso della minaccia costituita da IT e questo lega inevitabilmente a terra tutto il resto. E, purtroppo, lo scioglimento finale dei nodi resta davvero insoddisfacente.
Capitolo Uno