GLASS, la recensione del film di M. Night Shyamalan

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Samuel L. Jackson, James Mcavoy e Bruce Willis in una foto di Glass
Samuel L. Jackson torna nei panni di Mr Glass nel nuovo film di M. Night Shyamalan
Dopo lo scontro con lo spietato “uomo di vetro” Elijah Price (Samuel L. Jackson), David Dunn (Bruce Willis) scopre, in un notiziario, l’esistenza del feroce serial killer Kevin Wendell Crumb (James McAvoy), dominato dalla feroce “Bestia” che ha seminato morte nel seminterrato dello zoo dove lavorava. Dunn decide di mettere a frutto i suoi poteri come vigilante, aiutato dal figlio ormai adulto, e inizia a cercare Crumb.
M. Night Shyamalan alla fine di Split, pellicola del 2016, ha “sconvolto” il pubblico con un colpo di scena davvero inimmaginabile rivelando che il serial killer dalle molteplici personalità Kevin Wendell Crumb (McAvoy) esisteva nello stesso universo di David Dunn (Willis) di Unbreakable – Il predestinato. Una sorpresa che ha spianato la strada all’arrivo di Glass: due pellicole apparentemente lontane, sia nel tempo che nello spazio, si sono ritrovate in questo terzo capitolo popolato da uomini “straordinari”.
Glass è un thriller innegabilmente audace, ma che fatica a mettere insieme le due anime dei film precedenti. Gli stessi personaggi risultano sospesi e fin troppo ingabbiati – non solo fisicamente – in ruoli che non li caratterizzano fino in fondo.
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Samuel L. Jackson, James Mcavoy e Bruce Willis in una foto di Glass
La prima parte del film mantiene le promesse (e premesse) di Split con sequenze piene di azione arricchite dal personaggio di Bruce Willis che non sembra aver perso lo smalto e il piglio di 19 anni fa, ai tempi di Unbreakable – Il predestinato. Ma non appena la narrazione si sposta all’interno dell’ospedale psichiatrico, dove troviamo Mr Glass, il lungometraggio rallenta e iniziano a comparire le prime crepe: il ritmo della narrazione subisce una battuta di arresto a causa di reiterazioni e dialoghi fin troppo verbosi. L’impressione è che persino i personaggi non siano abbastanza impegnati nel proseguire la vicenda o siano confusi, così come lo spettatore in sala.
Shyamalan rimane un regista ambizioso e interessante, capace di donare alle sue opere un palpabile senso di trepidazione, ma la sua scrittura spesso non colpisce il bersaglio: i personaggi, segregati in gabbie realizzate proprio per inibire le loro doti “sovrumane”, non vengono mai in contatto tra loro e le uniche interazioni che hanno sono quelle con la dottoressa (Sarah Paulson) che ha il compito di convincerli della loro normalità. Kevin è il personaggio che, ancora una volta, domina il film (con un James McAvoy sempre impeccabile nel dare colore alle sue interpretazioni), ma perde tutta la sua forza espressiva confinato fra quattro mura.
Sicuramente il finale riesce a risollevare l’azione iniziale e offre momenti sorprendenti e stimolanti, ma il colpo di scena (lo “Shyamalan twist“) appare poco ispirato e non graffia, lasciando un senso di incompiutezza e di occasione mancata.