Presentata al Festival di Cannes 2016 nella Quinzaine des Réalisateurs, l’ultima fatica di Marco Bellocchio dal titolo Fai Bei Sogni è liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Massimo Gramellini, dove il giornalista racconta il proprio percorso professionale e di crescita a partire dal tragico evento che condiziona in modo irreversibile la sua vita: la morte improvvisa, e misteriosa, della madre quando aveva solo nove anni. Enigma centrale della sua esistenza, sarà sciolto in modo risolutivo solo quando Massimo, in età adulta, farà ritorno nell’appartamento della sua infanzia.
Nel metter mano ad un best-seller insolito rispetto alle influenze letterarie che da sempre caratterizzano la sua filmografia – in particolare modo Pirandello e Radiguet – Bellocchio sottrae alla narrazione degli eventi lo spirito gramelliniano – caratterizzato per lo più da un velato buonismo e da una mai celata passione per l’opinione più politicamente corretta, declamata come fosse in controtendenza – per infondervi il suo stile personale. Fotografa così una Torino dai colori lividi e dall’atmosfera cupa, abitata da figure autoritarie di religiosi (splendida l’interpretazione di Roberto Herlitzka), matrigne gelide, funzionari, giornalisti grigi che nascondono ad un’esistenza ferita la luce di un senso, distinguibile solo con la comprensione del mistero in cui è avviluppata la scomparsa della madre. Nel far questo, il cineasta di Bobbio cerca in una storia lontana dalle sue corde i pochi appigli dove esibire l’identità del proprio sguardo: come nella sporadica apparizione di fotogrammi tratte da Belfagor, fantasma del Louvre che diventa l’amico immaginario capace di colmare la solitudine del protagonista, o nelle disgressioni esistenziali del prete interpretato da Herlitzka. Segue così le vicende in modo diacronico, lasciando che infanzia, adolescenza ed età adulta si incrocino continuamente per potersi sciogliere solo nel finale, dove il mistero di un’esistenza in ricerca viene definitivamente rivelato. Senza dimenticare con questo di assumere un distacco critico rispetto all’autore letterario di cui segue le gesta: è estremamente significativa in questo senso la scena in cui, al primo articolo non sportivo, in risposta ad un lettore che odia sua madre, Gramellini viene acclamato dai colleghi per la sua capacità di esprimere l’ovvio nero su bianco.
Ma anche se Bellocchio negozia abilmente i diritti del proprio modus narrandi in casa altrui, la distanza tra i due universi finisce per non costruire un’opera risolta e completa. Le sequenze relative al percorso professionale di Gramellini sono didascaliche, troppo caricaturali le caratterizzazioni di alcuni personaggi (su tutti, il Raul Gardini interpretato da Fabrizio Gifuni). Resta però la suggestione delle scene della madre, nella fattispecie quella del ballo iniziale, momento liminare para-edipico (e qui è ancora Bellocchio che cerca di piegare le pagine di Gramellini alle proprie esigenze) che invade con la sua potenza tutto lo svolgersi del film.
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