Venezia 81 si apre all’insegna dell’intrattenimento gotico di Beetlejuice, Beetlejuice, il nuovo film di Tim Burton, che è tutto ciò che ci aspettavamo.

Di cosa parla Beetlejuice, Beetlejuice?

Dopo un’inaspettata tragedia familiare, tre generazioni della famiglia Deetz tornano a casa a Winter River. Ancora ossessionata da Beetlejuice, la vita di Lydia (Winona Ryder) viene sconvolta quando la sua ribelle figlia adolescente, Astrid (Jenna Ortega), scopre in soffitta il misterioso modello della città e il portale per l’Aldilà viene accidentalmente aperto. Con problemi in agguato in entrambi i mondi, è solo questione di tempo prima che qualcuno dica il nome di Beetlejuice (Michael Keaton) tre volte e il dispettoso demone torni a scatenare la sua personalissima versione del caos.

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Le note iniziali del sequel, sempre incalzate dalle musiche di Danny Elfman, ricalcano l’incipit del film originale del 1988 offrendo quello che, a tutti gli effetti, è puro fan service. Già a partire dai titoli di testa l’intenzione del regista è quella di riportare alla luce la sua vecchia gloria del passato.

Nello stile unico che lo caratterizza, Burton commette forse un piccolo passo falso: incagliarsi in fantasiosi voli pindarici citando sé stesso. Dalle inquadrature iniziali passando per l’animazione, il sequel, almeno nella prima parte, soffre il confronto forzato con il primo e ne esce, in parte, sconfitto.

Nella prima parte il film sembra non ingranare, saldamente legato a tutti gli archetipi del cinema burtoniano, ma soprattutto si aggrappa troppo all’originale fino a rimanerne incastrato. I due lungometraggi, ovviamente, hanno un collegamento, ma Beetlejuice, Beetlejuice perde la sua, almeno parziale, autonomia in termini di immaginario.

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Trentacinque anni e non sentirli. Questo dovrebbe essere il sottotitolo dell’opera di Burton e non necessariamente è un bene. Lo salva un racconto che riesce ad essere spontaneo e leggero.

Dopo un incipit incerto, che fa quasi temere un film fin troppo autoreferenziale, la narrazione si apre in modo credibile, accogliendo nuovi volti e personaggi. Nonostante alcune trame sembrano non essere mai completate adeguatamente e diversi personaggi di contorno – come Monica Bellucci (un incrocio intrigante tra Sally e la Sposa Cadavere) e Willem Dafoe – non hanno alcun impatto utile, il risultato finale è un piacevole esercizio di stile.

Ci sono trovate deliziose, scene frivole e divertenti che smorzano la solennità con cui Burton si approccia a certe tematiche; la vita oltre la morte e le responsabilità della vita adulta. Il suo immaginario visionario rende questo sequel molto personale, affine allo spirito del primo: molti effetti speciali non digitali e la libertà di plasmare il mondo da lui realizzato.

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Com’è Beetlejuice Beetlejuice?

Burton ricerca la chiave nostalgica del passato attraverso una visione partecipante e ingenua, ma il regista sembra doversi confrontare con l’inevitabile scorrere del tempo. La sua protagonista è una donna adulta che affronta la vita in maniera meno disincantata decidendo, però, di affidarsi a quel mostruoso conosciuto per salvare la figlia.

Traspare così tutta la sensibilità stravagante che caratterizza il cinema di Burton, sostenuto anche da un ritmo che è al tempo stesso pigro e frenetico.

Tim Burton utilizza il suo tocco magico e ancora una volta riesce a rendere sorprendentemente affascinante la morte, celebrando al tempo stesso la vita.

Foto: La Biennale di Venezia