Dopo l’ingresso (tutt’altro che in punta di piedi) nel circuito festivaliero con Raw (2016) e la consacrazione con la Palma d’Oro di Titane a Cannes nel 2021, Julia Ducournau torna nelle sale con il suo terzo lungometraggio, Alpha.

In un mondo governato dalla paranoia suscitata da un virus che pietrifica coloro che vengono contagiati, la tredicenne Alpha (Mélissa Boros) torna a casa con un tatuaggio sul braccio eseguito con un ago non sterilizzato. L’evento, in concomitanza con il ritorno dello zio tossicodipendente Amin (Tahar Rahim), scatena l’apprensione della madre dell’adolescente (interpretata da Golshifteh Farahani) e innesca una serie di dinamiche che rischia di compromettere la stabilità familiare.

Corpo e malattia

L’autrice francese porta avanti i temi a lei cari delle precedenti opere, veri e propri topoi che l’hanno resa una delle registe più apprezzate nel cinema d’autore europeo dell’ultimo decennio.

L’attenzione è ancora una volta rivolta al corpo: tuttavia il rapporto tra malattia parassitaria e carnalità (abbastanza dozzinale qui il richiamo all’AIDS), il disfacimento fisico, la mutazione e deturpazione delle membra si discostano con nettezza dalle atmosfere horror degli altri film, traducendosi in un dramma familiare dalle tinte fosche.

L’operazione, sottolineato l’apprezzamento per voler portare avanti un’autorialità ben definita e di personalità, non può tuttavia dirsi riuscita. La reiterazione dei medesimi meccanismi di provocazione svuota la stessa di efficacia e posiziona lo spettatore di fronte a un catalogo didascalico di turpitudini, non sorrette né da una sceneggiatura che riesca ad amalgamarle in modo organico né da una messa in scena che permetta di soprassedere alle mancanze narrative. Le differenti linee temporali che si alternano, per poi maldestramente sfiorarsi nel finale, si distinguono per una goffa differenza nella resa cromatica delle sequenze. I confini del mondo descritto sono (probabilmente in modo voluto) nebulosi, tanto nella dimensione spazio/temporale quanto nella caratterizzazione dei personaggi, con il risultato di una generale confusione, e il pathos che vuole suscitare nelle dinamiche dei rapporti figlia/madre, fratello/sorella, nipote/zio, altro non fa che stonare con l’atmosfera rarefatta della realtà contagiata e sudicia in cui vivono.

Turbamento o monotonia?

Sembra, infine, che la volontà di impressionare lo spettatore sia predominante rispetto al film stesso, ma la ridondanza di situazioni e il lirismo artefatto che va accentuandosi con il progredire della trama ne appiattiscono l’effetto. Molto interessante, per esempio, è il focus sull’ago come veicolo di trasmissione o di sottrazione, strumento di distruzione e di creazione: contaminazione e strumento salvifico allo stesso tempo. Nell’arco di venti minuti, però, abbiamo una ripresa in dettaglio rispettivamente di: un prelievo, un vaccino, un tatuaggio, un’anestesia, un’iniezione di eroina. Un’esplicitazione (ed è solo uno dei molti esempi che si potrebbero fare) francamente eccessiva e pleonastica dal punto di vista comunicativo. 

Senza nulla togliere dunque al talento di un’autrice che ha ben chiara l’idea di cinema che vuole portare avanti, era lecito da questo suo terzo passaggio aspettarsi un’opera decisamente più compiuta e meno imbrigliata dalla propria volontà di stupire.