BAYWATCH, la recensione della commedia con Dwayne Johnson e Zac Efron

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Il poster italiano di Baywatch
Che l’idea di adattare Baywatch per il grande schermo fosse pessima, lo si sapeva già dall’inizio. Che il film sarebbe stato una commedia demenziale lo si era intuito dai trailer. L’unica speranza rimasta allo spettatore era che, per lo meno, la confezione, la forma cinematografica, fosse degna di una presenza in sala e del costo del biglietto. E invece no, Baywatch è una confezione vuota.
Il cinema è il mezzo dello sguardo. Quando la fotografia e la riproduzione dell’azione tramite fotogrammi sono entrati nel nostro mondo hanno cambiato l’idea popolare del tempo e dello spazio. L’occhio onnisciente e onnipresente dei registi ha aperto sulla cultura mondiale la possibilità di ‘osservare’. Assieme a questo dono il mezzo ha portato con sé una deriva estrema delle sue possibilità: il voyeurismo. L’arte che osserva per il gusto di farlo, che si insinua nelle vite con la voglia di partecipare ad esse. Se lo sguardo indagatore del soggetto non viene guidato, il destinatario dell’attenzione viene svuotato da ogni componente di vita, da ogni umanità, in un processo di oggettificazione.
Questo è quello che fa Baywatch. Il film cerca infatti di trovare la sua ragion d’essere nel puntare verso il basso, verso lo scadente. Per assecondare la voglia di leggerezza del pubblico, alla ricerca del cosiddetto guilty pleasure, ogni ambizione cinematografica è livellata al minimo. Passino gli effetti visivi, scadenti a tal punto da tirare fuori dalla storia, ma mai così orribili da essere volutamente divertenti. Passi la recitazione ai minimi storici, la trama priva di qualsiasi idea e la demenza infantile. Quello che lo spettatore dovrebbe rigettare con forza è invece il rifiuto del regista Seth Gordon, di usare la grammatica cinematografica per divertire.
baywatch poster - Photo: courtesy of © Paramount Pictures
Baywatch – Photo: courtesy of © Paramount Pictures
È inevitabile il paragone con la saga cinematografica di Jump Street. Phil Lord e Chris Miller hanno parlato allo stesso target e con lo stesso linguaggio di Baywatch, ma con altri risultati. I suoni, il montaggio, il ritmo interno ed esterno del film venivano utilizzati per concretizzare le battute scritte in sceneggiatura. La demenzialità, l’elogio all’insensatezza, la leggerezza ad ogni costo, diventavano ironia graffiante verso i comportamenti della società e dell’industria cinematografica. Tutto aveva una logica, tutto sapeva essere leggero e godibile, infantile per certi versi, ma con al suo interno molteplici strati di lettura.
Baywatch dal canto suo si appoggia ai corpi degli attori. Il voyeurismo, molto più omosessuale di quanto facesse credere la campagna marketing, si compiace del suo rendere oggetto i personaggi. Anche senza entrare nel tema etico relativo allo sfruttamento del corpo, è facilmente intuibile la conseguenza di questo approccio: se i personaggi sono solo bellissimi contenitori vuoti, privi di idee e di volontà, diviene impossibile empatizzare con loro e quindi riderne. Si può ridere di Baywatch per la sua vena trash. Anche se, constatando quanto la “spazzatura” sia volutamente ricercata in fase di sceneggiatura e non involontaria, viene da chiedersi perché riderne. Quello che risulta pressoché impossibile è ridere con Baywatch. Nulla di quel poco che la commedia vuole comunicare arriva. Nulla resta veramente. Non si instaura mai una complicità tra lo schermo e chi guarda.
Baywatch red band trailer (2017) Dwayne Johnson as Mitch Buchannon and Zac Efron as Matt Brody
Baywatch – Photo: courtesy of © Paramount Pictures
Si può pagare il biglietto per ridere delle battute sul fallo, si può entrare in sala per vedere belle donne e begli uomini, ci si può sedere sulle poltrone per venire solleticati negli istinti più bassi. Il punto è: perché? Perché appoggiare e sostenere progetti tarati al di sotto della mediocrità?
Fare ridere è difficile tanto quanto fare piangere, se non di più. Perché allora per i drammi ci affidiamo ai maestri della regia, capaci di regalare esperienze talmente forti da cambiare le nostre opinioni, mentre per la leggerezza, per le commedie, non chiediamo qualità?
Viene da pensare al teatro greco e latino, in cui la distensione veniva alternata alla riflessione con pari dignità. L’umorismo genitale era un momento di purificazione finalizzato ad innalzare la sacralità del rito artistico. Toccare il basso per andare in alto. Visitare il profano per elevarsi al sacro. Se questo non avviene, non ci resta che il nulla.
Abbiamo più che mai bisogno di buone commedie, di corpi esposti, di demenza. Purché questi abbiamo un fine, una potenza corrosiva, che vada oltre il risvegliare l’adolescente che è in noi.

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