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Baba-Dook Dook Dook!
Mamma ho fame! Hai fame? Allora mangia la tua merda!
Pochi horror negli ultimi anni sono stati così acclamati dalla critica mondiale come il ‘terrificante’ Babadook.  Solo una cifra esigua di pellicole appartenenti al genere è stata accolta con smisurato clamore ed ‘orgasmo intellettuale’ dalla carta stampa (addetti ai lavori compresi). Era dai tempi in cui il talentuoso James Wan si affacciava nel panorama del cinema con i suoi horror, nello specifico da quel lontano Saw-L’Egmista che uscì sul grande schermo oltre 10 anni fa. E in 10 anni cosa è successo? Cosa ci offerto il genere dell’orrore che ancora oggi è degno di essere ricordato? Remake su remake, pellicole che si sgretolano come il legno delle scale traballanti delle case infestate da spiriti maligni o da entità sovrannaturali o ancora false rivisitazioni che fanno acqua da ogni inquadratura. E dunque, oltre agli influenti Rob Zombie con Le Streghe di Salem, Scott Derrickson con Sinister e lo stesso Wan con Insidious e Saw, che hanno segnato il primo quindicennio del terzo millennio, cosa ci è rimasto? E cosa ci attende?
Una risposta al quesito ha cercato di fornircela Jennifer Kent con il suo Babadook, primo film da regista per l’ex attrice australiana e assistente alla regia di Lars von Trier in Dogville, tratto dal suo stesso cortometraggio del 2005 intitolato Monster e vincitore di numerosi premi prestigiosi.

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Lo schema della storia è molto semplice ma non nuovo per le pellicole appartenenti al filone: Amelia è una giovane infermiera che lavora in un ospizio e, nonostante il tempo passato, è ancora provata dal dolore per la scomparsa del marito avvenuta 6 anni prima. La donna abita in una cupa e grigia casa insieme al figlioletto Samuel, un bambino tremendo (e terribilmente fastidioso) con dei seri problemi comportamentali. Il piccolo vive nella certezza che una presenza voglia uccidere lui e sua madre e solo quando un libro intitolato Mr. Babadook piomberà improvvisamente davanti ai loro occhi, il bambino darà forma a questo mostro.
A livello estetico e visivo il film è un piccolo gioiellino di tecnica, enfatizzato da una fotografia che non lascia scampo a penetrazioni di colore, stanziandosi in prevalenza sugli effetti del bianco e nero con inserti pallidi e cerei, tipici del grande cinema espressionista tedesco. Non a caso il lungometraggio deve la sua costruzione immaginifica e cinematografica al manifesto per eccellenza dell’avanguardia teutonica, Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, ma anche a quel Nosferatu il vampiro di  Friedrich Wilhelm Murnau, il cui richiamo fisico e scenico è smaccatamente evidente. Artigli, cappello e veste nera per il maligno ideato da Jennifer Kent, che non riesce a donare al personaggio quella carica di inquietudine e paura necessaria a far balzare di scatto lo spettatore dalla poltrona. Ma con ogni probabilità l’intento della regista era un altro: il Babadook che appare a tratti quasi innocuo, una presenza spettrale e paranormale che ringhia e bofonchia tiepidamente dall’aspetto stilizzato e visibile nei disegni presenti nel libro rosso, rappresenta la paura e l’ossessione insita in ognuno di noi, quella più oscura e profonda che non muore mai. Una repulsione a tutti gli effetti, proprio come quella rappresentata da Polanski nei suoi thriller psicologici della trilogia dell’appartamento, creditrice primaria di quella messa in scena dalla Kent, che ha cercato di puntare sull’auto-immedesimazione personale ma attraverso una chiave estraniante.

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È bene valutare la pellicola per il suo valore prettamente metaforico: oltre ai tanti omaggi ai grandi registi del genere come Mario Bava e Rupert Julian (Il Fantasma dell’Opera) e una sceneggiatura asettica, a tratti priva di spessore, è il conflitto interiore di una madre che, convinta di poter superare un passato che riaffiora inevitabilmente, non riesce a vivere serenamente il suo presente e il suo bambino. Il dramma familiare non superato, di un marito e padre prematuramente scomparso, è il nodo centrale della storia con tutte le varianti e conseguenze del caso: Amelia dimostra un senso di estraneità e irresponsabilità nei confronti di Samuel, il quale inizia a costruire armi da combattimento nel tentativo di difenderla dal mostro e da sé stessa. L’affetto verso la donna che lo ha tenuto in grembo è infinito e nonostante lei non abbia il coraggio di riconoscere il suo ruolo, il piccolo nutre un senso di protezione verso la madre, oscurata dall’ombra del Babadook, il vero fantasma del suo passato animato una costruzione mentale secondo la quale il figlio è il ricordo vivente del marito.

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Una linea sottile di oscillazione tra realtà e illusione, odio e amore, nostalgia e disperazione, per una madre offuscata e posseduta dal Babadook (ricorda in qualche modo Julianne Moore nel remake di Carrie), incarnazione del suo grande dolore che la porterà a una profonda lotta interiore e al ritrovamento di una serenità che avrà il suo prezzo.
Ambientato in una casa dalle geometrie rigide con grandi angoli bui, mobili spartani e grandi specchi, il film è frutto della maestria del giovanissimo direttore della fotografia Radek Ladczuk, abile nel generare un vero e proprio incubo visivo, coadiuvato dallo scenografo Alex Holmes in grado di fondere perfettamente le ambientazioni dark e suggestive con l’allegoria del mostro.
Nonostante sia stato idolatrato ed eretto ad emblema più spaventoso e terrificante del cinema odierno, Babadook è una pellicola onesta, con i suoi difetti di costruzione e sceneggiatura, che riesce a preservare la magia visiva del cinema espressionista senza però risultare particolarmente sorprendente, classificandosi nel panorama ‘horror’ per una pura convenzione filologica del genere, tendenzialmente più aderente ai canoni del thriller drammatico.
Simone Sottocorno

Rating_Cineavatar_3-5

Per approfondire l’aspetto cine-musicale di Babadook leggete la recensione della pellicola al seguente link:
http://www.colonnesonore.net/contenuti-speciali/dossier/3864-il-volto-musicale-di-babadook.html