AT ETERNITY’S GATE, una nobile riflessione sull’arte di Van Gogh – Recensione del film di Julian Schnabel

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Willem Dafoe è Vincent Van Gogh in At Eternity's Gate
Willem Dafoe è Vincent Van Gogh in At Eternity’s Gate
L’arte vive al cinema nei toni gialli di una stanza di Arles.
Julian Schnabel porta sul grande schermo la complessa e affascinante vita di Van Gogh firmando un ritratto intimo e struggente di uno degli artisti emblema del XIX secolo. Ponendo enfasi sul disagio del genio avanguardista che si sentiva sbagliato per la sua epoca, il regista si cimenta in una riflessione sullo stato dell’arte e il suo valore nel tempo, sul suo fine ultimo e la sua comprensione.
Proprio comprensione e speranza sono le qualità invocate dallo stesso Van Gogh, che ha trascorso il suo delirio esistenziale rifugiandosi nella solitudine e nell’agonia viscerale della sua più grande passione: la pittura.
Perché come dice Van Gogh, in uno dei momenti più illuminanti del film, “l’arte di un pittore è destinata a chi non è ancora nato”. Un lascito prezioso ma anche un atto di fede nei confronti del futuro, giudice incondizionato dell’espressione artistica.
Il Van Gogh raccontato in At eternity’s gate vive con la consapevolezza di non appartenere al presente, ma nella convinzione di saper cogliere la bellezza nei lacci di una scarpa, o nel rumore del vento, o nell’indulgenza della natura, o nell’essenza dei paesaggi, o ancora nell’ombra della luce, o nel chiarore della notte.
At Eternity's Gate
Willem Dafoe in At Eternity’s Gate (2018)
Convinto che “per raccontare un’opera d’arte sia necessario realizzare un’opera d’arte”, Schnabel plasma la sua estetica ricorrendo all’uso dello split diopter (tanto caro a De Palma) per enfatizzare i momenti e rappresentarli come forma di massima espressione della visione di Van Gogh. Le soggettive bifocali, sapientemente utilizzate nel racconto, avvicinano ancora di più il pubblico al protagonista in uno sguardo che si fonde e viene condiviso. L’idea dell’arte non è solo vista come abilità creativa ma, soprattutto, come esternazione dell’interiorità, delle proprie sensazioni, della spinta congenita di sperimentazione.
Vincent Van Gogh ha il volto scavato di Willem Dafoe, che lavora sulla propria pelle per restituire una versione fedele e scrupolosa del “pittore dei sensi”. Ed è subito un colpo di fulmine con un’interpretazione oltre ogni elogio. La fragilità di un uomo solo traspare in maniera cristallina dalla prova di Dafoe nei toni del giallo tanto cari all’artista.
La regia di Schnabel colma le inquadrature con gli occhi profondi di Dafoe, pieni di irrequietezza e desiderio di accettazione. At Eternity’s Gate è un film fatto di sguardi, quelli diretti di Vincent verso il mondo, quello degli altri nei confronti di un artista incompreso, quello di una società che lo considera un pericoloso sociopatico, quello dello spettatore che è, al contempo, lo stesso di Vincent.
Il bisogno di accettazione si contrappone al suo rifiuto verso il prossimo, verso una collettività miope e reticente. Una ferita emotiva che viene curata attraverso la ricerca di una pace, attesa e sospirata, negli spazi aperti, nella quiete dei paesaggi immersivi da lui tanto amati.
At Eternity's Gate
Willem Dafoe in At Eternity’s Gate (2018)
Estremamente romantico è il passaggio in cui Van Gogh si taglia l’orecchio per riconquistare le attenzioni dell’amico Paul Gauguin, interpretato da un convincente Oscar Isaac. Così come è da incorniciare il dialogo tra Vincent e il prete (Mads Mikkelsen) che si trasforma all’istante in un esaustivo saggio breve sulla fede, l’arte e le inconciliabili visioni del mondo.
Schnabel realizza un film elegante che sembra voler entrare in punta di piedi nella vita del pittore post-impressionista per cogliere ogni singola sfumatura della sua arte nel momento della genesi. Per catturare la passione, l’impeto furioso e deciso delle pennellate, il colore gettato come fosse materia viva, la tela come specchio di una realtà diversa, una realtà migliore di quella esistente, una realtà vista attraverso gli occhi dell’artista. Perché l’atto di creazione per Van Gogh era pura esperienza, puro contatto fisico con il quadro, e non poteva essere rinchiusa nei canoni della “buona pittura”, ponderata e inseguita.
At Eternity’s Gate tocca le corde dell’emotività parlando di arte nella sua forma più raffinata e intellettuale, come simbolo e testimonianza per le generazioni future. Non a caso Schnabel decide di non mostrare il quadro che dà il titolo alla pellicola, rendendo così Vincent protagonista di quella stessa tela. Quasi a voler stigmatizzare che il potete di ogni genio è quello di lasciare una traccia del proprio passaggio sulla terra.
Michela Vasini & Andrea Rurali