Spice World: la rivalutazione di un cult

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Spice World

Spice World

Spice World, il film delle Spice Girls, ha compiuto vent’anni. Ma è giusto o no definirlo cult?
La musica degli anni Novanta era il perfetto riflesso della società di quegli anni: un universo dominato da uomini.
Le boy band impazzavano, la fabbrica del merchandising lavorava senza sosta per soddisfare le isterie di fan urlanti pronte a riempire gli stadi, le piazze, le aree davanti al’’hotel in attesa dei loro idoli. In principio fu Elvis Presley a elevare l’immagine della rockstar a divinità, a farsi portavoce dell’istinto ribelle di una generazione in perpetuo conflitto con valori e pensieri genitoriali così distanti dai propri. In seguito vi furono i Beatles e tutto il mondo si inchinò dinnanzi al talento dei quattro di Liverpool. Certo, si trattavano di inchini urlati, di lacrime scese come cascate, di mani che coprivano volti provati e gambe che saltellavano non appena Paul, John, Ringo e George salivano sul palco. La loro comparsa sulla scena rivoluzionò non solo il concetto di musica, ma anche di mercato, dando origine a una proliferazione di gruppi musicali tutti accomunati dall’idealizzazione dei loro membri: ragazzi della porta accanto capaci di conquistare, con la loro apparente semplicità, il cuore di migliaia di fan. Un’imitazione seriale di cui i Beatles furono gli antesignani e che ha raggiunto il proprio apice negli anni Novanta, grazie soprattutto a gruppi come i Take That, Backstreet Boys, 5ive, Boyzone, *NSync.
E le donne? Di girl-band le pagine di storia ne ha conosciute molte.  Negli anni ’30, per esempio, erano solite esibirsi nei music-hall, con numeri di vaudeville fatti di canzoni sciocche e divertenti. Negli anni ’60 è stata poi la volta delle Ronettes, le Shirelles e soprattutto le Supremes, senza dimenticarci delle Bananarama e delle Salt-n-Pepa che, con la loro musica, infuocarono gli anni ’80, eppure nessuna di queste band riuscì a eguagliare, in termini di fama, i loro colleghi maschi. Quello della musica era l’ennesimo campo dominato da ragazzi giovani, di bell’aspetto, con faccine pulite e buone doti canore. Ma nel 1996 tutto questo era destinato a cambiare. È bastata una risata a inizio brano, un ritornello “catchy” e la rivoluzione Spice Girls ha preso largo nella pop-music, trascinando con sé tutto ciò che trovava davanti. Era giunto il momento del Girl Power, delle zeppe alte, dei vestiti sgargianti e delle bandiere inglesi orgogliosamente mostrate ovunque.

Quello delle Spice Girls fu un fenomeno istantaneo e mondiale. La notorietà di Geri, Mel B, Mel C, Victoria ed Emma è tutt’oggi paragonabile a quella della Regina Elisabetta II, o del Big Ben. La forza mediatica di questo quintetto – la cui fiamma accecante, in termini di carriera e produzione musicale inedita, fu destinata a bruciarsi in fretta –  generò una tale ondata d’urto da lasciare un proprio segno non solo nella memoria collettiva, ma nella storia culturale stessa. Ad alimentare un successo sancito con l’uscito di due album cardini nella storia della pop-music (Spice e Spice World) fu attuata una campagna di marketing senza precedenti. Magliette, poster, chupa chups e chewing-gum personalizzati, barbie, album di figurine, vestiti da carnevale, giochi per la PlayStation, tutti volevano avere un pezzo delle Spice Girls, e tutti acquistavano memorabilia di ogni tipo per sentirsi parte di quel Girl Power urlato, reiterato, calcificato nella memoria. In questa produzione oggettistica compulsiva si ritrova tutta la mentalità degli anni Novanta, ancora ancorata a uno spirito d’acquisto positivo, con un piede fermo nella casa della tradizione, e un braccio fuori nel mondo della tecnologia e dell’avanguardia; un mondo che ci ha poi reso tutti più soli e vuoti, proprio come vuote e sole erano le Spice dopo l’abbandono di Geri Halliwell.
Per una cultura legata allo Swinging London, all’esaltazione dei propri fermenti artistici, e alla consumazione di immagini, alla stregua di quanto compiuto con i Beatles, o i Rolling Stones, anche le Spice Girls ottennero la realizzazione del proprio film: Spice World. Tale produzione è da interpretarsi, nell’era della dominazione degli schermi e delle immagini in movimento, come la definitiva consacrazione del fenomeno Spice. Essere degne di comparire sullo schermo cinematografico (e poi televisivo) significava entrare di diritto nell’olimpo delle grandi star, e le Spice Girls grandi star lo sono state e lo sono tuttora. Lo dimostra la brevità di tempo con cui i biglietti del loro concerto (senza Victoria Beckham) sono andati a ruba. Assistere a questi live non significa soltanto aver acquistato un biglietto per vivere un’esperienza musicale dal vivo, bensì avere tra le mani un lascia passare verso la propria infanzia; ritornare per un momento ancora bambini; scatenarsi in balli e canti disperati, proprio come quando nascosti nelle camerette ascoltavamo attraverso un vecchio lettore cd, o uno stereo ad alto volume, brani destinati a rimanere indelebili negli antri della nostra memoria.

Spice World

Sulla scia di questo revival nostalgico, risulta giusto e dignitoso allora il recupero – nel ventesimo anniversario dalla sua uscita – del film Spice World. Per quanto infarcito di eventi improbabili e passaggi alquanto imbarazzanti, in esso vi è condensata tutta quella spensieratezza tipica non solo degli anni Novanta, ma dell’età che avevamo quando abbiamo guardato per la prima volta quelle immagini. Ciò è soprattutto vero per le ragazze, le quali vedevano nelle figure delle Spice quei modelli di rivendicazione femminile in tutte le sue forme possibili. Ogni Spice era dotata di una personalità unica e facilmente riconoscibile, evidenziata dal soprannome ad ognuna attribuito: Baby, Scary, Ginger, Posh, Sporty. Una differenziazione di carattere che nel film viene acuita anche dall’uso di colori armonizzanti al loro essere, dai differenti arredi all’interno del motorhome, e dai vestiti sfoggiati dalle cinque nel corso della loro carriera. (Ri)guardare Spice World significa pertanto ridere di fronte agli sterotipi che ognuna di quelle identità portava con sé (si pensi all’ossessione spasmodica per la moda di Victoria Beckham, o all’indole infantile di Emma Bunton, tradotta visivamente dalla mole di peluche che la circondano), ma allo stesso tempo ritrovare quelle infinite sfumature che compongono l’essere donna.

Dando voce a un fenomeno di massa, Spice World non poteva che richiamare a sé non solo riferimenti a film e icone che hanno forgiato la cultura anglo-americana (Twiggy, Wonder Woman, James Bond, Charlie’s Angels), ma cammei e guest star di personalità diventati testimoni dell’arte inglese in tutte le sue forme (Richard E. Grant, Roger Moore, Elton John, Stephen Fry).
Giocando a scacchi con Geri, e totalmente incurante di quanto imposto dal regolamento, Mel B afferma sprezzante «well, I break the rules» e le Spice Girls di regole ne hanno rotte tante. Sono andate contro un maschilismo dominante, propagandando come ideale quel Girl Power pronto a sfidare il potere degli uomini. Allo stesso tempo da unicum anni ‘90, il fenomeno Spice Girls si è trasformato in apripista per la formazione – e relativo lancio sul mercato – di infinite girl band, le quali non tutte hanno saputo eguagliare la fama delle colleghe inglesi. Si pensi alle All Saints, storiche rivali delle Spice, alle Atomic Kitten e Sugababes, meteore caratterizzate da innumerevoli cambi all’interno dei gruppi, o alle Destiny’s Child e TLC, le uniche che hanno saputo lasciare un proprio segno nella cultura musicale dell’RnB.
Spice World è dunque un’opera da recuperare, al pari dei live in programma questa estate in Inghilterra, non tanto per la qualità filmica proposta (montaggio, regia e recitazione rasentano quasi l’amatoriale e il dilettantismo; si salvano le interpretazione sempre eccellenti di Richard E. Grant e Alan Cumming), quanto per lo spirito di un’epoca ormai andata e i significati personali affidati e nascosti in ogni singolo fotogramma.
Fa male pensare, con il senno di poi, quanto il desiderio del direttore di giornale di vedere in prima pagina la notizia che vuole le Spice sciogliersi sia risultato profetico. Eppure, l’aver abbandonato le scene all’apice del successo non ha fatto altro che rafforzare il mito delle Spice Girls; un mito destinato a durare e che ha imparato a tenere duro nel corso degli anni, urlando sempre “Hai Si Ja, Hold tight”.