RomaFF11: THE BIRTH OF A NATION, la recensione del film di Nate Parker

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Nate Parker as "Nat Turner" and Aja Naomi King as "Cherry" in THE BIRTH OF A NATION. Photo courtesy of Fox Searchlight Pictures. ?? 2016 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved
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THE BIRTH OF A NATION – Photo: courtesy of Fox Searchlight Pictures. © 2016 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved
“E’ iniziata…”
Venuto alla luce quasi come antitesi cinematografica al dichiarato razzismo di Nascita di una Nazione (1915) di David W. Griffith, The Birth of a Nation è un film fortemente arrabbiato, molto più di 12 Anni Schiavo. Una rabbia solo all’apparenza ricattatoria che si rivela pura e viscerale. La pellicola scritta, diretta, prodotta e interpretata da Nate Parker narra una storia dal sapore arcaico e primitivo sulle origini di una brusca presa di coscienza, sui primissimi passi di un vero e proprio risveglio dell’identità.
L’opera porta sul grande schermo un preciso evento storico, la celebre e sanguinosa rivolta degli schiavi afroamericani nella Contea di Southampton (Virginia), guidata nell’agosto 1831 da Nat Turner (Parker), eppure si è optato per adottare un’esposizione di carattere quasi biblico, per non dire leggendario, lontano nel tempo. Le gesta di Turner, raro caso di schiavo spinto dai suoi stessi padroni all’apprendimento della lettura ed emerso come predicatore e portavoce della volontà divina contenuta nella Sacra Bibbia, sono immagini scolpite nella memoria comune come pitture rupestri sulle pareti rocciose di un’antica grotta.
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THE BIRTH OF A NATION – Photo: courtesy of Fox Searchlight Pictures. © 2016 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved
Mentre dal film premio Oscar nel 2014 diretto da Steve McQueen emergeva un forte rapporto causa/effetto legato alle azioni dei padroni bianchi sugli schiavi neri, in The Birth of a Nation risuona decisa l’affermazione di un destino immutabile che debba per forza di cose condurre l’intera comunità afro verso un avvenire luminoso e privo di soprusi. Non possono esistere compromessi e, se la violenza risulterà l’unico linguaggio comprensibile, allora scorreranno fiumi di sangue. Le parole dei testi sacri hanno ora un sapore diverso nelle bocche delle centinaia di schiavi che sono rimasti in silenzio e nell’ombra fino a questo momento, ascoltando le orazioni del loro compagno. Per Nat, al quale gli anziani hanno predetto un futuro da leader fin dalla sua più tenera età, divenuto ora un uomo a tutti gli effetti e con gli occhi bene aperti sullo stato di disgrazia della propria gente, è giunto il momento di dire ‘basta’.
Parker affida alla limpida e ariosa fotografia di Elliot Davis (The Iron Lady, Twilight) il compito di trasformare i singoli eventi in veri e propri dipinti su tela, la cui estrema tridimensionalità, unita alla scenografia e ai costumi d’epoca, fa sì che sia raggiunto il perfetto equilibrio visivo tra storicità e modernità. Colonna portante dell’efficace narrativa del regista statunitense è, inoltre, l’utilizzo del comparto musicale come acceleratore emotivo in grado di comunicare concetti al pari (se non più) delle parole stesse. Alla tribalità dei ritmi frenetici che accompagnano la primitiva e conturbante sequenza iniziale, succedono le solenni orchestrazioni di Henry Jackman (Captain America: Civil War, Kingsman: Secret Service) che, mescolandosi con un repertorio moderno, creano una splendida dissonanza stilistica che ribadisce il continuum temporale dei temi trattati.

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