The Smashing Machine di Benny Safdie, presentato in Concorso a Venezia 82, ridefinisce il ritratto di un lottatore attraverso la sua vulnerabilità.
Di cosa parla The Smashing Machine?
La storia del lottatore Mark Kerr (Dwayne Johnson), leggenda delle arti marziali miste e dell’Ultimate Fighting Championship.
Una poetica della vulnerabilità
Con The Smashing Machine, Benny Safdie prende in mano il racconto, già immortalato nel documentario HBO del 2002, e lo trasforma in qualcosa di diverso: un’opera intensa, spiazzante, a tratti disorientante, che scava con precisione nella fragilità nascosta dietro la corazza del campione. Non assistiamo soltanto a una cronaca sportiva, ma veniamo trascinati dentro i conflitti di Kerr, in un continuo oscillare tra palcoscenico e solitudine, tra ring e abissi interiori.
Safdie compie una scelta coraggiosa: mostrare le ombre anziché la gloria, il dolore al posto della catarsi, l’autodistruzione che convive con la forza. Non c’è celebrazione, non c’è trionfo, ma la tensione costante di un corpo potentissimo che si rivela, paradossalmente, il più fragile. È qui che nasce la sua poetica della vulnerabilità: ricordarci che persino gli eroi, quelli che sembrano indistruttibili, sono fatti di crepe e paure.

Un pugno allo stomaco
The Smashing Machine sorprende e divide, alternando la brutalità dei colpi sul ring all’abisso silenzioso della dipendenza, consegnando a Dwayne Johnson il ruolo della sua carriera. L’attore abbandona il suo solito carisma eroico e si lascia modellare da un personaggio che lo svuota e lo ricrea: un Kerr gigantesco nel fisico, ma emotivamente a pezzi, sospeso tra il bisogno di vincere e il richiamo autodistruttivo degli antidolorifici.
Non è un film che rassicura, non vuole compiacere. È un pugno nello stomaco, visivo ed emotivo, che ci mette di fronte a una verità scomoda: la forza non è sempre salvezza, e la fragilità può essere più universale della vittoria.

Com’è il film?
The Smashing Machine non è il classico dramma sportivo che porta lo spettatore ad esultare con il protagonista: è un viaggio disturbante e commovente dentro le pieghe più umane della fragilità. Safdie ci consegna un film che scuote, che ci costringe a guardare la vulnerabilità come parte integrante del mito, e Johnson sorprende con un’interpretazione che sembra spogliarlo di ogni maschera. Un cinema che non consola, ma che colpisce fortissimo.