TRANSFORMERS – L’ULTIMO CAVALIERE, la recensione del film di Michael Bay

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Transformers 5 - L'Ultimo Cavaliere
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Il poster italiano di Transformers – L’Ultimo Cavaliere
Sono pochi gli autori che hanno seguito un franchise per ben cinque capitoli. Michael Bay è uno di loro. L’unità concettuale che sta dietro all’epopea dei Transformers ha decretato anche la morte di ogni possibile critica. Il fatto che, ad eccezione del primo (in cui si percepisce la saggia mano del produttore Steven Spielberg) tutti i successivi episodi si siano sostanzialmente fotocopiati tra di loro deve portare a riflettere su ciò che si può veramente chiedere a Optimus Prime & Co.
Transformers – L’Ultimo Cavaliere è un prodotto solido, se lo si intende in termini di coerenza con ciò che il pubblico ha dimostrato di amare in precedenza, ma farraginoso e non commentabile dal punto di vista artistico. E allora, così come il Resident Evil di Paul W.S Anderson, Transformers può essere giudicato solo dal punto di vista di un appassionato. Porsi con uno spirito critico nei confronti di questi prodotti costringerebbe chi analizza a non potere fare altro che stroncare senza pietà. Il film è disarmonico, eccessivo a livelli esponenziali, nella misura in cui è sconclusionato, per niente uniforme, totalmente illogico e frammentato. Nella sceneggiatura è disgregata e asettica, ogni dialogo è uno stereotipo che andrebbe visto senza la traccia della voce. Il messaggio di fondo è infantile e le situazioni sono ripetute, già viste e per nulla originali.
Una volta pagato il pegno alla serietà dell’arte cinematografica, e dopo avere ammesso che poco o nulla funziona ne L’Ultimo Cavaliere, occorre fare un passo in avanti.
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Mark Wahlberg è Cade Yeager in Transformers – L’Ultimo Cavaliere
Del cinema di Michael Bay colpisce la fascinazione per l’estetica della battaglia, per l’azione caotica e ipertrofica, per l’imponenza dei mezzi e la vastità degli spazi utilizzati. I set sono giganteschi e complicatissimi da gestire. Il rapporto tra effetti visivi, recitazione, movimenti di macchina e corse in scena, rasenta un funambolismo che ormai è diventato un marchio di fabbrica. Il suo portare il cinema oltre i limiti sacrifica il godimento narrativo classico e si avvicina alle presentazioni tecniche. Quasi come in un Expo, i film di Bay sono la messa in scena della potenza massima che può raggiungere il blockbuster contemporaneo. Non c’è una vera e propria ragione a questa rappresentazione se non quella di garantire al pubblico un’esperienza da lunapark.
Transformers è consapevole di ciò che è. Persino i momenti topici, sempre uguali per tutti i capitoli della saga (il discorso finale, il terzo atto fracassone, il leader degli Autobot che grida “io sono Optimus Prime” e spacca tutto) sono gestiti con grande sincerità. Bay sa che nulla di tutto questo è minimamente fine o ricercato. Nessun momento della saga è diventato celebre grazie alla sua raffinatezza. Attraverso il brutto, i momenti debordanti e kitsch (il termine più adatto sarebbe “tamarri”, ma lo riserviamo alle discussioni da bar), il lungometraggio trova la sua libertà e la sua ragione di esistere. È il diritto ad essere umilmente sgraziati, consapevolmente vicini al pubblico più appassionato e meno esigente. Tutto ciò sarebbe un male se questo atteggiamento corrispondesse ad un inganno del pubblico (si veda Baywatch che, con la scusa di essere becero, era un film fatto con sufficienza, con poco impegno). Transformers invece è tecnicamente ineccepibile. È come un album musicale, prodotto alla perfezione ma con brutti brani, che viene utilizzato per testare la fedeltà delle casse appena acquistate. È una esaltazione della fantasia adolescenziale. L’immaginario cammina sulla sottile linea che separa la scoperta delle altre persone da parte dei giovani e l’attaccamento ai giochi dell’infanzia, che seguono l’emozione, non uno svolgimento lineare.
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Il leader degli Autobot Optimus Prime
Transformers, nei suoi difetti, è l’unico saga hollywoodiana che riesce a proporre una struttura in 3 atti lontana da quella teorizzata ne “Il viaggio dell’eroe”. Ogni segmento dei film ha protagonisti diversi, le storie non vengono concluse, le sottotrame sono inutili ai fini dello sviluppo drammatico. L’Ultimo Cavaliere non vive infatti sui personaggi ma sull’idea di resistenza. L’uomo combatte battaglie non sue per rivendicare il suo diritto ad esistere. La morale finale, ormai diventata un classico, ha il livello di complessità dei classici delle fiabe. Il vissero felici e contenti si declina qui in un “potranno vivere felici e contenti se ricostruiranno il mondo dopo la guerra, assieme, umani e Autobot, in armonia”. Forse è proprio per questo motivo che Transformers piace così tanto, pur non avendo nulla di clamorosamente bello. Perché è sincero, sorridente, onesto con gli spettatori. Perché non c’è una cosa che funzioni ma, allo stesso tempo, sembra essere uscito esattamente come il regista e la troupe volevano che uscisse. Un film perfetto, nelle sue totali imperfezioni.

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