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Che dire di Southpaw, se non che di mancino c’è stato solo il tiro che ha ricevuto chi si aspettava di vedere un film sullo sport? Onestamente bisogna riconoscere che l’ultimo dramma del regista Antoine Fuqua, noto ai più per Training Day (2001) o per il più recente The Equalizer (2014), risulta godibile se si ha l’unica aspettativa di essere intrattenuti per 124 minuti. Il ritmo è buono e il film è esteticamente gradevole ma, se si tenta di farne un’analisi più approfondita, ci si rende conto che c’è più di qualcosa che non va.
Gli intenti erano buoni: Fuqua ci presenta Billy Hope (Jake Gyllenhaal), pugile professionista all’apice del successo (lasciandoci però intendere che la sua carriera sportiva cominci in quel momento la sua fase discendente), mentre difende il titolo di campione dei medio-massimi. Sin dai primi istanti, si capisce quanto la vera forza di Billy, dentro e fuori dal ring, risieda nella figura della giovane moglie. È Maureen (Rachel McAdams), compagna nella vita con la quale ha condiviso la dura esperienza dell’orfanotrofio, a prendersi cura della famiglia Hope, mentre lui incassa mirabilmente un colpo dietro l’altro, senza comprendere molto di ciò che gli accade intorno. Questo delicato equilibro viene stravolto quando Billy si trova a perdere in rapida successione Maureen, il titolo, la propria fortuna economica e la custodia della figlia Leila (Oona Laurence), a causa di quello che definire “destino avverso” sarebbe un eufemismo. Il problema è che, a questo punto della storia, non è solo Billy a essere distrutto ma anche l’intera coerenza narrativa del film. Improvvisamente tutti gli elementi critici introdotti (probabilmente troppi) rendono Southpaw una pellicola che parla del diventare adulti a discapito della boxe, la quale, a questo punto, si trasforma semplicemente in metafora.

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La parola chiave è proprio “semplicemente”, o sarebbe meglio dire “semplicisticamente”. L’idea che la vita possa evolversi come la boxe di Billy, dove doti innate e forza fisica diventano improvvisamente insufficienti ed è necessario imparare a crescere (responsabilizzarsi, far valere la tattica sull’istinto), sebbene non originale, celava una sua interessante potenzialità, a patto di riuscire ad arrivare fino in fondo. Tuttavia, Southpaw resta in superficie: il Billy nuovamente orfano, questa volta della sua vita, deve maturare grazie all’aiuto del suo nuovo allenatore (e figura paterna), l’ex-pugile Tick Wills (Forest Whitaker), ma il processo di crescita risulta troppo rapido rispetto alla gravità delle calamità che si sono abbattute sulla sua vita. La naturale conseguenza è la sensazione che il cambiamento del pugile celi in realtà un’inconsapevolezza che, in qualche modo, si trasmette allo spettatore, il quale si ritrova a non esser convinto di aver colto il vero significato delle vicende narrate.
Il film risulta quindi inconcludente, mancando l’aspettativa di essere “semplicemente” un film sulla boxe e lasciando contemporaneamente l’amaro in bocca nel momento in cui s’intuisce l’esistenza di un senso più profondo, ma sviluppato così male da risultare quasi impalpabile, come una fastidiosa presenza che resta in sospeso. Paradossalmente, la scelta di un intreccio più semplice e di un approccio meno psicologico avrebbe giovato alla pellicola, rendendola puro intrattenimento e restituendole coerenza. Southpaw è un film che, purtroppo, non trova una sua quadratura: lo sceneggiatore Kurt Sutter (Sons of Anarchy) lascia la storia di Billy Hope in una sorta di limbo, attraverso il quale non è riuscito a parlare degnamente né di vita né di boxe, e lo stesso Fuqua non è stato capace di tirarla fuori dalla dimensione dell’ambiguo. Nonostante tutto, il film è ben recitato e risulta oltremodo godibile, sempre che si lasci fuori dal cinema ogni sorta di velleità analitica.

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