
Un giorno noi appassionati di cinema, e di forme narrative complesse, dovremmo metterci seduti ad un tavolo e discutere nel dettaglio cosa significhi fare un remake. Questo pensiero è scaturito dalla visione della versione in chiave live action del capolavoro d’animazione del 1995.
L’adattamento diretto da Rupert Sanders sembra, inizialmente, puntare ad emulare con una fedeltà, degna del Watchmen di Zack Snyder, la sua fonte. Le sequenze cardine, così come le atmosfere visive, sono rappresentate con un rispetto notevole per il materiale originale. Gli effetti speciali, moderna forma d’animazione, pareggiano in potenza e fluidità il tratto a matita dei disegnatori. Con un lavoro egregio di trasposizione in termini di spettacolarità, Ghost in the Shell è infatti brillante ed immersivo e riesce molto nell’intento di costruire un mondo che catturi lo spettatore. L’impatto è tale da fare pensare che, la scelta di adattare il manga sotto forma di anime, sia stata dettata, all’epoca, dall’impossibilità tecnica di riprodurre lo splendore dell’universo cyberpunk del film.

Con il procedere dei minuti il lungometraggio inizia a manifestare i suoi limiti e a prendere una strada autonoma. Laddove Mamoru Oshii comprimeva le battute e i dettagli dati allo spettatore, Rupert Sanders amplia, spiega e mostra. Il maggiore pregio della versione del 1995 era infatti il suo procedere incessante, caricando di significati le inquadrature. Oshii condensava in meno di 80 minuti una quantità impressionante di dati e informazioni. L’idea di regia, era infatti quella di creare un prodotto che chiamasse il pubblico ad una partecipazione attiva. Lo spettatore, rispondendo alle domande irrisolte ad una prima visione (chi è veramente il Maggiore? Qual è il vero scopo del Burattinaio?), si trovava di conseguenza a rispondere a interrogativi filosofici.
Quel Ghost in the Shell non era altro che una riflessione sulla vita stessa. Una fotografia accurata, e avanguardista, delle questioni etiche che il mondo sta iniziando a porsi solo ora. Si parlava dell’essenza dell’uomo, in rapporto alla macchina, alla convivenza tra i due in una società iper-connessa. Si mostrava il cyberterrorismo, la sorveglianza continua di occhi multimediali e panottici. La ricerca dell’anima, dell’essenza umana, spasmodica e incerta.
Sanders invece dà le risposte, rompe il velo di mistero attorno al Maggiore e a Kuze, viaggiando su un binario più sicuro per il successo commerciale, ma di gran lunga meno toccante. La sua città è coloratissima, ma senza persone, priva di quell’umanità che Mamuro Oshii faceva osservare a Motoko con passione.
