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Brett Ratner si sfoga contro Rotten Tomatoes

Ratner contro Rotten.

Potremo chiamare così, a mo’ di scioglilingua, la recente polemica avviata dal regista di Rush Hour contro il famoso sito Rotten Tomatoes. In un’intervista ad Entertainment Weekly il regista ha infatti definito il sito come “la cosa peggiore della cultura cinematografica odierna”.
Ratner ha voluto precisare la sua posizione e ha dichiarato: “Penso che sia un danno per il nostro business. Quando ero giovane la critica era una vera arte. Chi la faceva ci metteva uno sforzo intellettuale, leggete ad esempio le recensioni di Pauline Kael e di altri che, oggi, non ci sono più… Adesso si tratta solo di numeri. Una somma di numeri positivi contro i negativi. È triste che adesso sia tutto legato allo score di Rotten Tomatoes. La valutazione di Batman v Superman era così bassa che credo abbia messo una nube oscura su un film di incredibile successo”.
Rotten Tomatoes, così come il simile Metacritic, non è infatti altro che un aggregatore di recensioni internazionali. I criteri di selezione dei recensori che vanno a compilare l’elenco sono legati alla loro portata in termini di reputazione e letture. L’indicatore principale della piattaforma è un “Tomatometer” che indica, usando la metafora dei pomodori, la freschezza o meno di una pellicola.
Lo strumento è ormai da anni al centro di numerose polemiche. Sono infatti molte le luci ma altrettante le ombre di questo approccio alla valutazione del prodotto artistico. Gli aggregatori di recensioni sono sicuramente degli strumenti comodi e divertenti che operano sulla sintesi per fornire consigli agli spettatori. La sua funzione non è dissimile all’aggiunta delle “stelline” a fine recensione. Esse sono infatti una metafora visiva molto immediata per suggerire al lettore, con un solo colpo d’occhio, il gradimento di chi scrive. Nel caso specifico di Rotten Tomatoes non va però confusa la percentuale di gradimento con l’indicizzazione del valore nel merito.
Se infatti un film ottiene il 90% di recensioni positive, il dato va interpretato come la possibilità statistica che il 90% degli spettatori gradirà la pellicola. La percentuale non equivale affatto ad un voto nel merito. Non significa, per intenderci, un 9\10 in una classifica a stelle. Un prodotto audiovisivo può piacere ad un pubblico vastissimo, senza entusiasmarlo, senza essere un capolavoro. Allo stesso modo se solo il 20% dei critici ha promosso un lungometraggio, non significa che esso valga 2 su 10. Nulla inoltre impedisce ad uno spettatore di rientrare in quel 20% che apprezza la pellicola e quindi di passare delle ore piacevoli in sala, nonostante il “pomodoro marcio”. Certo, bisogna anche presupporre che il parere della critica e quello del pubblico siano sempre allineati (per fortuna, non lo sono).

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Ma, e qui deve esserci un ma grande come una casa, è davvero tutta qui la critica cinematografica?
Arriviamo quindi alle ombre di Rotten Tomatoes. In questo caso non è lo strumento a dovere essere il protagonista, ma l’uso che se ne fa. Gran parte della critica internazionale, ha ragione Ratner, ha scelto, per pigrizia o per acchiappare click, di accentuare oltremodo la valutazione a poli di merito: “bello\brutto” “buono\cattivo”. Ci sono ovviamente eccezioni a questo approccio ma, ormai, a questo esercizio critico, viene attribuita una natura elitaria, lontana dal gusto dei semplici fruitori.
Questa linea di pensiero, secondo chi scrive, è profondamente sbagliata: l’analisi cinematografica non deve seguire i gusti del pubblico, ma deve precederli, formarli e guidarli. Si può fare ciò solo partendo dalla consapevolezza che Rotten Tomatoes e simili siano degli strumenti incompleti per un corretto esercizio critico.
Tale affermazione diventa più chiara se si considera il rapporto tra un prodotto e l’epoca in cui viene proposto. I veri artisti innovatori vanno controcorrente, si oppongono ai gusti affermati e li stravolgono, creano stili sovversivi, provocano il pubblico portando al suo intelletto qualcosa di mai visto prima.
Per questo motivo bisogna tenere a mente che un film può variare la propria importanza nel tempo, invecchiare, essere rivalutato o svalutato. Che voto si darebbe oggi a Nascita di una nazione, il magistrale capolavoro di Griffith, considerando il suo messaggio politico e scindendolo da una visione orizzontale della storia del cinema? Capirete sicuramente che la domanda, così posta, non ha senso. Ogni lungometraggio è un intreccio di opere, di significati, di culture. Film accolti negativamente dalla critica possono influenzare la cultura popolare e ritagliarsi un posto nella storia del cinema (si veda, ad esempio, il Grosso Guaio a Chinatown).
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Grosso Guaio a Chinatown
È chiaro quindi che l’esercizio di critica cinematografica perde di valore se si limita all’assegnazione di un giudizio estetico e si dimentica di guidare il fruitore nella comprensione dell’opera. Usando una metafora scolastica: la china che si sta prendendo è quella di essere dei professori, talvolta severi, talvolta morbidi, che assegnano voti. La critica deve essere invece un libro: una chiave di apertura a domande finalizzate alla ricerca di senso.
Se una pellicola fosse puro godimento estetico sarebbe vuota. Non ci sarebbe nulla da dire a riguardo, per lo meno non in più di poche righe. Allo stesso modo il prodotto sarebbe totalmente irrilevante nella vita dell’uomo, completamente privo di presa intellettuale al di fuori del tempo di fruizione.
Vorrei proporvi infine una provocazione: si può sconsigliare un film?
Non credo che si possa e si debba farlo, per rispetto del lavoro delle persone e perché l’opinione che ci si forma da sé è più importante di quella derivata dal giudizio altrui. Però è altresì vero che, se non si può impedire una visione, si può aiutare a comprendere l’intenzione del regista. Si possono fornire strumenti per formare un giudizio personale completo. Si può aprire un dibattito sulla società e sulla realtà a partire dai film. Ma tutto questo richiede tempo e fatica.
Per questo motivo sarebbe auspicabile che la critica mettesse da parte la pretesa di potere affermare qualcosa, e magari classificarla, per ritornare invece a sondare l’affascinante e meraviglioso universo del dubbio e della ricerca.