La recensione di The Book of Vision, il nuovo film di finzione di Carlo S. Hintermann presentato alla Settimana della Critica della 77. Mostra del Cinema di Venezia

Carlo S. Hintermann compie la sua prima opera di finzione, The Book of Vision, e la fa pulsare di quel senso “ultra mondano” e filosofico, tipico del regista Terrence Malick, che non a caso compare come produttore esecutivo del film (senza dimenticare che Malick è stato anche il soggetto del documentario, girato dallo stesso Hintermann, Rosy- fingered dawn: un film su Terrence Malick).

the book of vision

Qual è la storia di The Book of Vision?

La dottoressa Eva, incinta, colpita da una malattia che sembra escludere con ogni possibilità la sua stessa gravidanza, decide di abbandonare il suo lavoro di oncologa per studiare il progresso della storia medica. Scopre così il libro e le lettere di un medico del Settecento, Anmuth. Le storie e i personaggi che si muovono negli scritti dell’antico dottore diventano forza potente dentro di lei, trascendono il tempo e si affermano nella sua vita con visioni vivide e sempre più reali.

Perché The Book of Vision è un’opera filosofica?

Perché pone al centro dell’opera una tesi filosofica e la argomenta attraverso la narrazione filmica.

La tesi sembra essere: la storia avvalora nei suoi diversi piani temporali un certo tipo di scienza, che però, nonostante tutto, non è in grado di spiegare, né di comprendere, l’alterità del mondo e solo la conoscenza approfondita della storia (considerata come testimonianza non tanto dei forti che dominano, ma dei deboli che muoiono ignorati dai forti) e il rispetto verso il mistero della natura possiamo accettare e forse abbracciare l’ignoto.

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Perché è un’opera dialettica?

Perché costruisce un dialogo forte tra passato e presente, tra ideologie di scienza diverse e tra due mondi diversi.

Il presente è progredito dal punto di vista scientifico, ma paradossalmente ha come rappresentante un chirurgo anziano (interpretato dal meraviglioso Charles Dance), non si interroga sul passato né su dilemmi etici (Eva si sente di poter tenere il bambino in sicurezza, mentre secondo la scienza medica per sopravvivere dovrebbe abortire). E se l’anziano rappresenta questo tipo di progresso scientifico, Eva, la giovane, rappresenta un ritorno al passato, che attraverso il suo studio (e suo figlio) allaccia un rapporto diretto con la storia.

Il passato invece è un crocevia ideologico: da una parte abbiamo Anmuth (sempre interpretato da C. Dance), esponente di un tipo di medicina molto antico, legato più alla persona e alla “irrazionalità” magica, di cui Maria è portavoce esplicita; dall’altra abbiamo Lindgren, medico giovane, con conoscenze e credenze razionalistiche, il quale è attento alla formazione della malattia e alla funzione degli organi singoli, rappresentante delle spinte illuministiche e scientifiche.

I due mondi in dialogo, invece, sono quello dei vivi e quello dei morti e la mediatrice di questa dimensione duale è senza dubbio la tormentata “strega” Maria, in grado di “vedere al di là dello specchio” e parlare coi morti.

Il suo rapporto col piccolo Valentin, personaggio fondamentale per il tramite vita-morte (e viceversa) e passato-presente, ricorda molto nelle immagini con cui viene rappresentato il Malick di Tree of Life.

La morte è raccontata in senso animistico: coincide infatti con la natura, fatta di boschi, fogliame e intricate radici, madre premurosa che nutre e si prende cura dei suoi figli (le ombre, i morti).

I morti, si dice nel film, non sono mai veramente morti, ma aspettano in punta dei piedi una nuova visione.

Teresa Paolucci

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