La recensione di Notturno, il nuovo film di Gianfranco Rosi
presentato in concorso a Venezia 77 e dal 9 settembre nelle sale

Gianfranco Rosi torna sugli schermi veneziani con Notturno, il nuovo documentario girato tra Kurdistan, Siria, Libano e Iraq. Siamo in un confine labile, come in tutto il cinema di Rosi, tra racconto cinematografico e fotoreportage, tra realtà e messa in scena. Un conflitto spesso insanabile, che talvolta appare respingente nella sua artificiosità, ma che viene scagionato dalla voglia del regista di non dare risposte. 

Indagando una delle terre più sofferenti del mondo, il regista non cerca di coglierne la grande storia collettiva e nemmeno le piccole vite. Ciò che viene catturato nel film è l’immobilismo (metaforico, ma anche fattuale) delle vite sospese in una lunga notte. L’autore scompare dietro la cinepresa, ma non è invisibile. Il suo occhio compone immagini di rara bellezza per un documentario (ma come suo solito). Sottolinea le piccole azioni, come lo scaldarsi le mani attorno al fuoco o gli istanti prima del sonno di una famiglia. Quello che è il vero protagonista è però un deserto dei Tartari tra le macerie di un mondo spartito da interessi corporativi. 

L’ISIS, silenzioso nemico mai veramente sconfitto riemerge nei racconti e nei disegni (agghiaccianti per crudeltà) dei bambini sopravvissuti alle loro torture. Rosi non vuole denunciare, non vuole dare risposte, non prende posizione. Forse, in fondo, non cerca nemmeno di porre domande. Notturno è infatti un ritratto poetico di un tempo che scorre e in cui, incidentalmente, la vita cerca un senso.

In un istituto psichiatrico dei pazienti cercano di mettere in scena uno spettacolo politico, che trovi le ragioni della sofferenza inflitta dalla storia. Nel frattempo le donne soldato scrutano l’orizzonte in trincea. Il paesaggio sonoro della notte si riempie dei rumori degli spari in lontananza, i carcerati sfilano in ordine a colorare di arancione il cortile dell’ora d’aria. Una donna piange il figlio morto. Sono echi di voci e suoni che rimbombano nel vuoto lasciato dalla guerra. Tableau vivant di una bellezza mozzafiato.

Quello che lascia perplessi è però la coesione dell’intera operazione. Sebbene si nasconda è sempre il regista il personaggio più in vista. È a lui che rivolgiamo il plauso del. raggiungimento estetico. La cinepresa non scompare mai per le persone ritratte. Non guardano mai in camera e noi non vediamo loro eppure ogni movimento sembra costretto dalle indicazioni di una regia. La sua presenza influenza infatti i movimenti delle persone ritratte, restituendo un leggero senso di artificialità. Regna un senso teatrale su tutto il film, una sensazione di artificiale trucco da prestigiatore della meraviglia. E non è un bene.

Sotto le immagini, lungo le prospettive chilometriche e senza fine, si fatica a ritrovare un vero movimento. Non fisico, non interno, ma un movimento dello spettatore condotto per mano dalle immagini. Notturno non trova giovamento dalla sua natura cinematografica. Non viene arricchito dal montaggio. Non trova una compattezza interna. Tolto un fotogramma ad inquadratura e incorniciato in una mostra fotografica con didascalie e audio guida, il film non avrebbe perso senso.

Notturno
La scena iniziale del film Notturno

Nulla nel film riuscirà ad eguagliare la forza del suo inizio, ed è un peccato. Un campo vuoto che si riempie gradualmente di militari durante l’allenamento mattutino. Un gruppo, poi un’altro, poi un’altro ancora. Sembrano non finire, sembrano invadere una terra incontaminata per non lasciarla più. Un immagine simbolo di terre inquiete che bene rappresenta la voglia di un racconto “diverso”. Un’ambizione che mai trova una vera anima nel resto del film.