Da Memento a TENET come muta il concetto di tempo nelle narrazioni del cinema di Christopher Nolan

A tre anni di distanza da Dunkirk (2017), Christopher Nolan torna al cinema con TENET (2020). Un’autentica esperienza sensoriale tra passato e futuro, o forse futuro e passato. Un’opera dalla mole narrativa imponente e dalla trovata temporale sorprendentemente originale ma che – come spesso succede con le opere di Nolan – è riuscita a dividere fortemente critica e pubblico pagante. Solo che, a livello puramente fenomenologico, il dare addosso a Nolan sembra più un voler cercare il pelo nell’uovo. In una ricerca di difetti al limite dell’ossessione, che per quanto più o meno condivisibile, è forse ingenerosa per un regista dal simile acume narrativo.

TENET non è esente dalle critiche, nemmeno tra gli addetti ai lavori. Soffermandosi sovente sulla complessità dell’intreccio, senza provare a capirne le ragioni. Nel caso del titolo palindromico infatti, Nolan ha realizzato un’opera che per quanto difficile a una lettura pigra, ha al suo interno una magia che non può non affascinare.

Christopher Nolan e John David Washington sul set di TENET

Un paio d’anni fa, a un evento in cui ha dialogato con David Fincher, Christopher Nolan ha detto la sua a proposito di ciò che secondo lui dovrebbe essere il linguaggio filmico:

Quando pensi allo stile visivo, al linguaggio visivo di un film; tende ad esserci una naturale separazione tra lo stile visivo e gli elementi narrativi. Ma con i grandi, sia che sia Stanley Kubrick; Terrence Malick o Hitchcock quello che vedi è inseparabile: una relazione vitale tra le immagini e la storia che sta raccontando.

In tal senso, l’opus Nolaniano si caratterizza proprio per una fortissima compenetrazione tra immagini e narrazioni in una poetica filmica dagli elementi conclamati. Caratterizzandosi di ragionati intrecci di brutali passioni dal respiro asciutto a cui aggiungiamo una sempre più viva e mutevole, connotazione temporale. Con le dovute eccezioni legate all’opera d’esordio – Following (1998) e alla trilogia di Batman (2005-2012) – infatti, il cinema di Nolan si è saputo distinguere per una sempre differente declinazione dell’espediente temporale; agendo ora sulla dimensione caratteriale; ora sullo sviluppo del racconto. TENET, in tal senso, ne rappresenta in qualche modo la summa filmica.

Il tempo come caratterizzazione tra Memento e The Prestige

Una prima forma della connotazione temporale nel cinema di Nolan, è data da come il tempo incide sulla dimensione scenica del protagonista. L’esempio più evidente di una simile caratterizzazione, ci viene dato dal secondo lungometraggio, Memento (2000). Il titolo dell’opera con protagonista Guy Pearce, racconta infatti di Leonard Shelby. Un uomo affetto da amnesia anterograda incapace d’immagazzinare informazioni nuove per più di quindici minuti. Fa fronte al tutto scrivendo qualsiasi cosa su post-it, foto, e perfino sulla propria pelle.

Il tempo in Memento caratterizza così le azioni del Leonard di Pierce, limitandone l’operato, la portata. Compenetrando la sua caratterizzazione, in un’arena scenico-temporale di quindici minuti. Nolan va oltre però, sfruttando la condizione invalidante del suo protagonista traslandola nella struttura narrativa. Spezzando così l’ordine di un abituale sviluppo del racconto lineare per mezzo di un lavoro di montaggio da scuola del cinema.

Guy Pearce
Guy Pearce in una scena di Memento

Nel caso di The Prestige (2006), l’opera che perfino i non-Nolaniani non possono non amare la connotazione temporale trova rimandi in una narrazione dall’andamento più canonico e lineare. Un solido intreccio con cui Nolan racconta di una magica sfida a distanza tra Alfred Borden (Christian Bale) e Robert Angier (Hugh Jackman); un thriller in bilico tra illusione e inganno dal respiro corto e teso.

Laddove in Memento il tempo risultava invalidante, non bastando mai nell’agire del protagonista e nel dispiego del conflitto scenico, in The Prestige agisce in maniera dicotomica. Il tempo compenetra anche qui il racconto delineato da Nolan, caratterizzando però non già la sua interezza, ma il plot twist alla base della narrazione. Così facendo, Nolan propaga la dimensione caratteriale di uno degli agenti scenici per mezzo di un espediente narrativo a metà tra la magia e il macabro.

Le dilatazioni temporali di Insomnia e Interstellar 

Al suo secondo lungometraggio, Insomnia (2002), Nolan porta in scena un atipico thriller scandinavo valorizzato da una coppia d’assi del calibro di Al Pacino e Robin Williams. Un racconto dalle sfumature esistenziali con cui raccontare di una tipizzata coppia di detective dalla dubbia moralità, mandati in Alaska, a Nightmute per investigare su di un efferato omicidio. Il tempo in Insomnia ha un peso specifico decisamente differente rispetto a Memento e un po’ rispetto a tutta la filmografia di Nolan.

Il cineasta britannico connota la componente temporale sul piano del contesto scenico piuttosto che agire come elemento caratteristico ora della morfologia del protagonista, ora su un piano narrativo. Nolan manipola l’elemento temporale dilatandolo all’estremo. Nell’assenza dell’alternanza tra giorno e notte che agisce – di riflesso – sulla psiche e sulla tenuta fisica del Dormer di Pacino.

Christopher Nolan e il concetto di tempo
Ellen Burstyn in una scena di Interstellar

La trovata temporale di Insomnia, trova il suo potenziamento scenico-narrativo in Interstellar (2014). L’epica fantascientifica a metà tra space-opera e realismo scientifico con Matthew McConaughey ed Anne Hathaway si arricchisce di significazione con il passare degli anni. Nel declinare il topos del viaggio e della colonizzazione spaziale come unica salvezza della specie umana, Nolan dà un’ancora di speranza all’umanità. Salvo poi far emergere, al suo interno una profonda anima nichilista.

Nel raccontare di come non è la salvaguardia del pianeta la prossima meta, ma la sua evacuazione, Nolan dispiega una forte componente temporale. L’assenza dell’alternanza di giorno e notte di Insomnia, diventa l’assenza del tempo da vivere con i propri cari. Una dilatazione che va oltre i confini del mondo e dell’Universo per mezzo unicamente del potere dell’amore.

La relatività del tempo nel cinema di Nolan tra Inception e Dunkirk

Al suo settimo lungometraggio, Inception (2010), Nolan alza l’asticella riguardo alla complessità narrativa. Declinando così un racconto di scatole cinesi a metà tra onirismo e heist movie. Una sorprendente atipicità filmica, con cui Nolan gioca con il tempo del racconto e il tempo che resta da vivere agli agenti scenici. La particolarità di Inception, tra totem, estrazioni e sogni sta nella relatività del tempo in una narrazione di paradossi architettonici e livelli onirici.

La squadra d’estrazione del Cobb di Di Caprio infatti, agisce di innesto in innesto, di sogno in sogno, declinando così pretesti scenici con cui connotare la componente temporale del suo cinema a livello ritmico e narrativo. Ad ogni sogno innestato infatti, il tempo di quel segmento di racconto, rallenta. Innestando livelli onirico-narrativi, con cui relativizzare il tempo scenico in ogni sua unità.

Tom Hardy in una scena di Dunkirk
Tom Hardy in una scena di Dunkirk

La stessa connotazione temporale è così riscontrabile nel suo decimo – e attualmente – penultimo lungometraggio. Con Dunkirk infatti, il cinema di Nolan si caratterizza di una profonda anima di critica sociale sulla disumanità della guerra, un’atipicità all’interno dell’opus Nolaniano. Nel raccontare dell‘evacuazione di Dunkerque infatti, Nolan gioca con la relatività del tempo declinandolo in tre unità narrative dalla differente valenza.

Una settimana; un’ora; un giorno. Sono queste le unità di tempo di cui dispone Nolan nel suo racconto bellico. Così facendo, il regista britannico dipana una struttura narrativa a tre archi; in un incedere lineare che trova nella climax l’intreccio degli stessi.

TENET, l’agire del tempo sul racconto di Nolan e il ritorno alle origini

L’undicesima e attualmente ultima pellicola di Nolan, TENET, si connota di un forte (e atipico) elemento temporale, rispetto alle precedenti declinazioni. All’interno di un ibrido narrativo tra le atmosfere del 007 di Craig, e quelle della saga di Bourne, Nolan rilegge i topos dello spy-movie in una narrazione da Guerra Fredda contemporanea.

Raccontandoci così, dell’agente scenico denominato, letteralmente, Il protagonista (John David Washington) che incede nel racconto  interagendo con archetipi senz’anima e a-empatici con l’unico obiettivo di salvare il mondo dalla posteriorità di algoritmi in mano a mercanti d’armi russi. Eppure, se la narrazione di TENET può sembrare un canonico e già visto viaggio dell’eroe la connotazione dell’elemento temporale – e le estetiche nolaniane al suo interno – riescono a renderlo unico e irripetibile.

John David Washington e Robert Pattinson in una scena di TENET
John David Washington e Robert Pattinson in una scena di TENET

Laddove infatti con Memento Nolan agiva sulla caratterizzazione del personaggio, e con Inception e Dunkirk sulla relatività temporale con TENET si va oltre l’abituale connotazione temporale del suo cinema. Il regista britannico agisce infatti direttamente sulla polarità entropica di causa ed effetto di ogni singola componente scenica. Operando quindi un processo d’inversione su di una singola azione; sulla componente dialogica “al contrario”; sul contesto scenico; e infine sull’arco narrativo del suo protagonista.

Una progressiva destrutturazione di ogni componente che, rievoca in parte il processo compiuto con il sopracitato Memento. In tal senso però, tra Memento e TENET la differenza sta nella ratio scenica. La connotazione temporale operata da Nolan è infatti traslazione dell’amnesia anterograda del Leonard di Pearce, trovando poi valorizzazione filmica in sede di montaggio. Con TENET invece, il cineasta britannico agisce in via dicotomicamente opposta. Partendo dal principio d’elettrodinamica della Teoria Wheeler/Feynman, applicandolo a tutte le componenti narrative.

Operando così più che sulla caratterizzazione dell’agente scenico, sul suo arco di trasformazione nella totalità. Un’atipicità quindi, che se in Memento va a configurarsi in un intervento diretto del cineasta (come Tarantino per Pulp Fiction) – extradiegetico in TENET, al contrario, questa è parte integrante del racconto – configurandosi quindi, come diegetica.