THE PAINTED BIRD, l’odissea dell’orrore secondo Václav Marhoul

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The Painted Bird, l’uccello dipinto del titolo, è il protagonista di una delle scene più toccanti del film. Un passerotto ferito viene catturato da un uomo e un bambino e poi curato (l’assenza di nome del protagonista del film è un elemento narrativo fondamentale per il senso del racconto). L’animale viene colorato dai due, poco prima di essere rilasciato e fatto volare trai suoi simili. Non appena raggiunge lo stormo di uccelli, non è riconosciuto dai suoi simili e viene beccato a morte. Il vagare del bambino protagonista del film trova senso dentro questa immagine. Il ragazzo senza nome è un ebreo dagli occhi neri come la notte (e come il demonio), allontanato dai suoi genitori per sfuggire alle imminenti persecuzioni naziste. Quando la zia a cui è stato affidato muore, egli inizia la sua (dis)avventura personale: un viaggio verso casa dai toni omerici che viene messo in scena da Václav Marhoul come un cammino di vita all’interno di tutta la morte e il male che l’uomo è capace di produrre.
The Painted Bird è l’odissea nuda dell’orrore, la trasfigurazione della brutalità umana in bianco e nero, sullo sfondo di una civiltà all’ombra del collasso, accecata dall’odio e dalla superstizione.
Marhoul firma un’opera dal respiro letterario, un dipinto livido e decadente della miseria umana, unita alla puerilità di spirito, che si avvale di simboli e allegorie per riprodurre in lenta progressione il dualismo atavico tra bene e male. Se volessimo spingere all’estremo la valutazione di The Painted Bird, potremmo definirlo come il ritratto pornografico del dolore e della violenza, di un’atrocità che non lascia alcun barlume di speranza e positività. Senso di smarrimento, raggelante crudeltà, perdita totale di emozioni e di qualsiasi forma di magnanimità: sono alcuni dei tratti distintivi di un film che parla della non accettazione dell’individuo all’interno della società.
Debitore del cinema evocativo di autori come Klimov, Tarkovskij (non a caso i modelli di riferimento sono L’infanzia di Ivan e Va e Vedi) e Béla Tarr, il regista ceco sposa il formalismo estetico e una messa in scena minimale per raccontare la cosmologia tra luce e oscurità, bene e male, trascinando il piccolo protagonista in un lungo calvario di sofferenza ed espiazione delle colpe altrui. Sulle sue spalle pesa il fardello del peccato e delle barbarie umane. Sul suo volto è impressa l’immagine di un mondo liquido, arido, privo di moralità e pietas.
Una fiaba oscura, condita di ciclopi (un uomo a cui vengono cavati gli occhi), sirene (una ninfomane che attrae e sottomette sessualmente il bambino), orchi e figure demoniache. The Painted Bird è fatto anche di violenza fisica: il bambino subisce stupri, viene seppellito vivo e ferito dai corvi, ci sono arti amputati, scene di pedofilia e zoofilia e tutti gli orrori universali. La forza del lungometraggio risiede, in gran parte, nella capacità di essere repellente, di creare lo shock della guerra. Ma, allo stesso tempo, non si indugia sull’efferatezza, o per lo meno non più di quanto lo si faccia anche sul bello. L’atmosfera cupa e caliginosa è profondissima ma anche il chiarore tende a risaltare.
The Painted Bird prende le mosse dall’omonimo romanzo del 1965 di Jerzy Kosiński e lo usa per mostrare sullo schermo una storia di vita, assoluta, indistruttibile, attraverso un percorso di morte e rinascita. I dialoghi sono quasi interamente condotti in una lingua artificiale, l’interslavo (simile all’esperanto), e non appartenente a nessuna cultura specifica. È chiara l’intenzione di realizzare una favola universale.

Non sono ovviamente mancate le polemiche alla 76. Mostra del Cinema di Venezia. Un errore interpretare il film in maniera letterale. Un peccato osservare solo l’esagerazione (in fondo la guerra è l’esatto contrario di quell’esibizione di corpi eroici che tanto il cinema ci racconta), senza godersi la fatica di arrivare in fondo a questo film imponente e sfidante.
L’Uccello Dipinto è un’opera capace di suscitare emozioni contrastanti, agli antipodi. Non ambisce alla poesia ma mira allo stomaco. Non vuole essere vedibile ma, al contrario, ruvida e respingente come il male che l’umanità immette ogni giorno nel mondo. E, quando il novello Ulisse torna nella sua Itaca, svuotato da ogni afflato vitale, ricerca nei (pochi) momenti felici il suo nome, la sua identità. Perché a fronte di ogni violenza, di ogni privazione, il bambino ne esce vincitore. Perché l’uomo può togliergli tutto, dalla dignità alla sua infanzia, ma non riuscirà a impedirgli di essere una persona. A essere e quindi a esistere. L’uccello dipinto non verrà riconosciuto ma non smetterà mai di spiccare il volo.
Gabriele Lingiardi & Andrea Rurali