Space Force non è The Office, e non ha nemmeno la presunzione di esserlo. Nasce come un progetto a se stante, e indipendente. Il suo unico cruccio è quello di avere alle spalle due menti creative come Greg Daniels e Steve Carell, le stesse che hanno portato sul piccolo schermo la versione americana della sit-com ideata da Ricky Gervais e Stephen Merchant. Basta poco per far nascere il paragone. Troppo grande il fenomeno The Office, troppo forte la sua mancanza, così da spingerci a ricercarlo ovunque, anche in progetti del tutto inediti e da esso totalmente distanti.

Eppure Carell e Daniels ci provano a bissare il successo di The Office con Space Force (disponibile su Netflix). Lo fanno affidandosi al talento immane di John Malkovich, e a una satira sottile capace di attaccare con ingegno e alacrità un sistema politico come quello americano, di per sé tristemente comico per quanto assurdo. Le frecciatine a Trump, alla corsa non solo allo spazio, ma a un predominio sugli altri paesi combattuto sulla falsariga della “democrazia” si sentono in tutta la loro potenza. Dopotutto, l’intero universo gravitante intorno a Space Force è ispirato a fatti “reali”: non è passato molto tempo da quando il Presidente Trump ha infatti reso nota l’intenzione di creare una vera forza spaziale dedicata alla conquista dello spazio (con tanto di logo copiato da quello di Star Trek). Un’idea ridicola, qui resa in chiave sarcastica dalla creatività di chi, con la noia della routine quotidiana e la sua ridicolaggine, ci ha regalato con The Office nove stagioni di assolute risate. Ma, lo ripetiamo, Space Force non è The Office. Nessun microcosmo lavorativo che parla del nostro vissuto universale, fatto di scadenze, colleghi sopra le righe, o boss tanto surreali (e a tratti irriverenti) quanto in cerca di approvazione. Space Force è un prodotto americano che parla dell’America e dei suoi mille volti, incarnati in ogni personaggio che compare sullo schermo.

Space Force

A livello visivo la serie è una galleria armoniosa di personaggi idiosincratici e allo stesso tempo (im)perfettamente umani. Un po’ come gli impiegati di The Office, o quelli di Parks and Recreation, i loro caratteri strampalati eppure cosi realistici, sono ponti diretti con i propri spettatori. Sebbene radicati nel contesto americano da cui traggono linfa vitale, Mark Naird (Steve Carell), la moglie Maggie (Lisa Kudrow), la figlia Erin (Diana Silvers), il responsabile marketing “Fuck Tony” (Ben Shwartz) o il dottore Adrian Mallory (John Malkovich) sono creature manovrate con maestria e rese vive da attori capaci di comprenderli fino in fondo, ridando indietro il loro ego smisurato, o la loro natura razionale. Eppure qualcosa va storto da un punto di vista narrativo. I loro archi di sviluppo sono tracciati non linearmente, ma dall’unione di tanti trattini. Si sente quando la mano si ferma insicura per poi ricalcare in maniera non proprio perfetta il disegno preparatorio sottostante. Crescono, sbagliano, commuovono, ma i protagonisti di Space Force svaniscono. Non rimangono impressi per sempre nella nostra memoria come impronte sul suolo lunare.

Space Force

Dal canto suo il comparto visivo vive di un’armonia fotografica e registica abile nel celare i divergenti caratteri autoriali dei registi che si alternano nel corso della serie, senza per questo cancellarli del tutto. Gli episodi sono tante piccole stazioni di un’unica narrazione continua, mentre i cineasti amalgamano i loro stili con un certo equilibrio senza contrastarsi mai. Nessun regista tenta pertanto di prevalere sull’altro (sebbene la cinepresa di Dee Rees superi in termini di traduzione empatica quanto non detto e nascosto all’interno del microuniverso ripreso) dando vita a una sinfonia visiva di indubbia qualità. Chiamati a porre il proprio occhio artificiale dinnanzi allo strampalato team del generale Naird, Paul King, Tom Marshall, Daina Reed, Dee Rees e David Rogers sono direttori di orchestra capaci di trascinare il proprio pubblico al centro di una danza elegante dell’umana insicurezza. Sbagliano i personaggi di Space Force, e i registi sono sempre pronti a cogliere le loro naturali reazioni con piani ravvicinati capaci di tramutare i loro volti in maschere caricaturali (si pensi al personaggio di John Malkovich che urla “fuck you” davanti allo schermo del pc).

Ciò non può essere asserito per quanto riguarda l’aspetto narrativo. In questo caso Space Force si trasforma in una montagna russa fatta di numerosi alti, e troppi, troppissimi, bassi. È una serie che viaggia con il freno a mano tirato, Space Force. Ha paura di lasciarsi andare, sposandosi con la forza motrice del caustico sarcasmo. Vive di un potenziale sotteso che solo negli ultimi tre episodi può liberarsi e riscontrare nel finale di stagione un’epitome di tutto ciò che questa serie poteva essere, ma non è stata (non a caso a firmare il penultimo episodio è quel Paul Lieberstein che ha sceneggiato già The Office e dato vita al personaggio di Toby).
“Altalenante”: ecco come possiamo definire Space Force. Non un’astronave lanciata con forza nello spazio oscuro, e poi pronta a fare il proprio trionfale ritorno sul suolo terrestre. Space Force è una semplice altalena. Parte debole, con un pilot alquanto deludente (sebbene la scena del ballo sulle note di “Kokomo” dei Beach Boys rischiarisce un cielo in tempesta), per poi lanciarsi in un secondo episodio che vive sui fasti del passato e di quella comicità semplice, ma funzionante, che ha reso grandi certe sit-com divenute “cult”. Il resto è un alternarsi di momenti piatti a scoppi improvvisi di genialità. Un elettrocardiogramma irregolare, pronto a stabilizzarsi nel corso delle ultime tre puntate.

A tenere sulle spalle il peso della serie è soprattutto il duo Carell-Malkovich. Steve si dimostra un artista poliedrico, capace di strappare un sincero sorriso con un semplice sguardo o verso della bocca. La sua vena comica risiede nella potenza mimica. È un’eredità da cinema classico, quella di fare a meno delle parole per comunicare con gli occhi, con la bocca, con la potenza insita tra le pieghe di un espressionismo mai caricato (talento dimostrato anche in ruoli più drammatici come in Beautiful Boy). John Malkovich è un portento irrefrenabile. Grazie a Space Force può dare spazio a un’ironia troppe volte tenuta nascosta, mostrata in poche ma memorabili occasioni come A prova di spia dei Fratelli Coen. Sebbene giocata in sottrazione, l’interpretazione costruita sul togliere del suo dottor Mallory permette allo spettatore di comprendere appieno la sua psicologia, a leggerlo come un libro aperto, sorridendo e arrabbiandosi con lui.

Non era quello che ci aspettavamo Space Force. Ma, a ben pensarci, neanche la prima stagione di The Office era quello che tutti si aspettavano. Forse questa serie ha semplicemente bisogno di tempo per essere analizzata e criticata nel suo complesso; tempo affinché altri eventi, viaggi, litigi e incontri si possano sommare a quelli appena mostrati e capovolgere un prodotto che inizialmente partiva svantaggiato e poco riuscito, un po’ come il compito assunto da Naird alla Space Force. Nell’attesa teniamoci stretti quei brevi istanti in cui lo spazio non ci è mai sembrato così vicino e così allucinante, prima che scivoleranno via come polvere di stelle. O, ancor peggio, sostituiti dai ricordi di Storia, quella vera, quella con la “S” maiuscola, quella che nella sua assurdità fa davvero più paura.