La recensione del film The Game di David Fincher
“Ho le ossessioni, amico, serie. Mi prendono per il sedere tipo sedie. È come quando sei malato di schizofrenia, e il prete ti convince che il diavolo ti possiede” reciterebbe Caparezza vedendo The Game – Nessuna regola.
The Game (disponibile su Netflix) è il terzo film del cineasta americano David Fincher. Un figlio un po’ disconosciuto, questo, sfornato da Fincher dopo i più quotati Alien3 e Se7en. Qui il regista di Mank si cimenta in un film dove sicuramente la regia la fa da padrone, ma non si può dire lo stesso per la trama. A tratti assurda, e per questo incapace a sbrogliare con fatica una matassa di avvenimenti rocamboleschi.
Il protagonista Nicholas Van Orton (Michael Douglas) è immerso in una salsa thriller dal sapore ansiogeno. Nicholas, ricco e annoiato affarista, vive solitario nella sua enorme villa di San Francisco avendo come unico obbiettivo i suoi affari, e nei ricordi il fardello di un padre morto suicida quando lui era solo un ragazzino. Nel giorno del suo 48esimo compleanno, viene invitato da suo fratello da suo fratello Conrad (Sean Penn), a partecipare a un gioco di ruolo organizzato da una società chiamata CRS, Nicholas incuriosito, si reca degli uffici della nuova filiale di questa società, dove viene sottoposto a dei test, che però daranno esito negativo. Viene dunque scartato, o almeno apparentemente. Il gioco in realtà è cominciato eccome, e da quel momento in poi, una serie di stranezze e manomissioni catapulteranno il protagonista in una straniante sensazione di terrore e smarrimento. Accompagnato da Christine (Deborah Kara Unger)per gran parte dell’arco narrativo, dovrà capire e arrivare a scoprire come l’organizzazione di questo gioco, sia riuscita a sottrargli tutto il suo patrimonio, e stia tentando di ucciderlo.
La trama tiene incollati allo schermo, ma l’assurdità degli avvenimenti fa pensare che gli organizzatori del gioco abbiamo previsto anche l’impensabile, o che non vi sia stata molta capacità di analizzare le varie mosse che il protagonista poteva eseguire in fase di sceneggiatura del film stesso.
Nonostante le mille domande che lo spettatore è spronato a farsi sulla trama, e la leggerezza con la quale Nicholas si fa trascinare negli eventi lascia interdetti, il pubblico sta letteralmente al gioco, lasciandosi coinvolgere facilmente. Il finale è mozzafiato, tra il susseguirsi di indizi che lo condurranno alla verità, e ciò che lo porterà ad emulare il gesto del padre.
La fotografia gioca molto sui toni grigi, mentre la regia butta sempre un occhio prospettico particolare, con i plongée (riprese dall’alto) e contre-plongé (riprese dal basso) con i quali Fincher si diverte molto. Folgoranti i flashback che Nicholas rivive prima del salto del padre nel vuoto, utilizzando un effetto pellicola che mescola toni caldi e opachi. Le atmosfere urbane e scure, invece, sono giocate come solo David Fincher può fare, dando vita ad alcune scene che non lasciano scampo e respiro allo spettatore, per quel loro essere a tratti claustrofobiche e deliranti. Il tutto orchestrato da una colonna sonora stridente e inquietante.
Tutto sommato la trama, nonostante sia un po’ tirata, riesce comunque a trascinare lo spettatore insieme a Nicholas, facendogli vivere il suo incubo a occhi aperti, anche grazie a un’ottima prova attoriale di Michael Douglas.
Il “gioco” architettato proietta il protagonista al centro di un meccanismo simile a quello del Truman Show, e mette a nudo gli automatismi che lo bloccano nelle sue aride ricchezze, lo slega dal passato facendolo entrare in una dimensione terrena rispetto a quella che ricopriva come ricco affarista.
Una volta svelato l’incubo, sembra quasi guarirne, a patto che il gioco sia mai finito.
Angelo Fragnito