In Rapito Bellocchio affronta la storia di Edgardo Mortara in maniera laica senza pregiudizi. Presentato in concorso a Cannes 76.

Si tratta di una storia vera?

I fatti raccontati in Rapito di Marco Bellocchio, presentato a Cannes 76, sono realmente accaduti. Edgardo Mortara nasce nel ghetto di Bologna il 27 agosto 1851 in una famiglia ebraica. Segretamente venne battezzato da una domestica cattolica che pensava che il bambino stesse per morire. Sei anni dopo, la Santa Inquisizione decretò che Edgardo venisse educato secondo le leggi dello Stato Pontificio a Roma e lo portò via dalla famiglia.

Com’è il film?

Il film è intenso e molto coinvolgente. Rapito accompagna il pubblico nella vicenda in maniera lineare toccando, oltre alla storicità dei fatti, la sfera sentimentale del disgregamento del potere della Chiesa di metà ‘800.

Affidandosi a un cast di grandissimo livello, Bellocchio mette in scena, con la sua firma distintiva, le contraddizioni di un potere che soffoca la libertà e la coscienza del singolo. Il piccolo protagonista è una vittima che diventa parte di un sistema che lo indottrina e che lo priva di ogni possibile pensiero critico.

Il film scorre con un buon ritmo, con le giuste pause e le giuste accelerazioni narrative; tutto è vissuto in maniera forte, a tratti cinica, ma anche umana e innocente.

rapito recensione

Qual è il giudizio di Bellocchio sulla vicenda?

Bellocchio affronta la storia in maniera laica senza pregiudizi, rimanendo fedele ai fatti e mostrando le sfaccettature dei vari protagonisti.

Il regista fa un lavoro rispettoso nei confronti dei personaggi e del loro credo (siano essi cristiani o ebrei) riuscendo ad affrontare la tematica delle controversie del potere mettendone in luce le sue imperfezioni.

A chi è consigliato?

Il film è consigliato, oltre agli estimatori del regista, a chi si appassiona a storie che raccontano l’ingerenza di un potere sulla libertà personale e di come si combatte per riacquisire la propria autonomia. Il sentimento prevaricante della narrazione rimane quel senso di ingiustizia, figlio del suo tempo, e un ritratto malinconico di una scelta forzata che accompagna l’intera esistenza di un individuo privato del libero arbitrio.