La recensione del documentario
diretto da Ron Howard su Luciano Pavarotti

Non esiste persona al mondo che non conosca Luciano Pavarotti, così come non c’è anima viva che non cominci a librarsi in volo alle prime note del “Nessun Dorma” di Giacomo Puccini, nell’ormai esemplare interpretazione del tenore modenese.

Ron Howard sembra esserne consapevole, non mancando di enfatizzare proprio quelle parti del suo docufilm che lasciano maggiore spazio alla musica e al canto. Ogni volta che Pavarotti entra in scena, cavalcando il palco come un bambino che stringe in mano il giocattolo più bello del mondo, comincia a smuoversi qualcosa nel cuore di chi ascolta. Mai nessuno, infatti, ha saputo avvicinare come lui l’Opera alle grandi masse, sotto gli sguardi biechi dei puristi di vecchio stampo.

Pavarotti, photo courtesy of Fondazione Cinema per Roma

Questo perché Pavarotti, l’artista prima ancora dell’uomo, si è incamminato lungo un percorso di costante (seppur quasi impercettibile) evoluzione del proprio pensiero nei confronti dello scopo ultimo del fare Musica. Il continuo mutare pelle, calandosi ogni volta nelle “braghe” di un personaggio differente, fin quando la tragedia della finzione non si è trasformata in tragedia della realtà, lo ha allontanato per troppo tempo dall’unica maschera che non è mai riuscito a interpretare con convinzione: quella di marito e padre di famiglia ideale. Eppure, ha saputo prendersi cura di un altro tipo di famiglia allargata. Innumerevoli le opere di beneficenza e le collaborazioni con artisti al di fuori del mondo della Lirica. L’evento annuale Pavarotti & Friends è senza dubbio l’esempio più fulgido ma, già grazie al progetto I 3 Tenori (al fianco dei colleghi Placido Domingo e José Carreras), il confine tra Opera e musica popolare si era notevolmente ristretto.

Pavarotti, photo courtesy of Fondazione Cinema per Roma © Globe Photos/ZUMAPRESS.com

Il documentario di Ron Howard prosegue la tradizione di quei prodotti di divulgazione (tipici di Sky Arte e delle attuali piattaforme streaming) che mirano a consegnare un intimo ritratto del soggetto in questione, senza mai indugiare in scelte personali che possano anche solo intaccare quel minimo di consapevolezza del personaggio che ne suggelli la stima nel nostro immaginario. Attraverso la classica sequenza di interviste ad amici e familiari, il regista di Rush e de Il Codice da Vinci ci introduce un uomo segnato dall’esser nato in tempo di guerra, sensibile di natura, insicuro, amante dell’attenzione al pari del buon cibo… ma anche in grado di donare tutto sé stesso, mettere tecnica e conoscenze al servizio di coloro che, come lui, condividono un legame profondo con l’Opera e di abbracciare l’arte canora nella sua totalità.

Dispiace dunque che il film convinca perlopiù in virtù del forte sentimento che quel timbro a noi così familiare e quei “Do di petto” così inconfondibili fanno scaturire dal nostro subconscio, laddove maggior coraggio e determinazione avrebbero fatto andare la visione registica di pari passo con l’immancabile e dovuto rispetto.