
È sufficiente dire, e ribadire, che la storia è accaduta veramente per migliorare un film?
No? Perfetto, siamo sulla stessa barca.
Ore 15:17 – Attacco Al Treno, di Clint Eastwood, è un lungometraggio che forse non aveva nemmeno ragione di esistere. Va bene, è commovente tutto quello che c’è alle sue spalle. Certo, al centro della storia ci sono persone comuni che diventano eroi in situazioni estreme. E soprattutto, i tre amici protagonisti della vicenda interpretano loro stessi.
Ma il film?
DAI BINARI ALLA CINEPRESA
Ore 15:17 – Attacco Al Treno racconta la vera storia di tre amici californiani, cresciuti insieme, che fanno una vacanza in Europa. Sul treno che li porta da Amsterdam a Parigi un attentatore armato di mitra cerca di fare una strage: l’intervento fulmineo e coraggioso dei tre sventa la minaccia evitando vittime.
Eastwood, di sicuro non l’ultimo degli sprovveduti, commette una serie di errori incredibili che un film di un certo livello non dovrebbe commettere. Il più evidente è che fin dalle primissime inquadrature Ore 15:17 – Attacco Al Treno appare come un film realizzato in economia, come i tv-movie di una volta, palesemente inferiori a ciò che si vedeva in sala.
Ma i problemi partono dalla sceneggiatura: Dorothy Blyskal, al suo esordio, manca completamente il bersaglio, sbagliando tempi e modi. I personaggi risultano tutti tra l’iniquo e lo sgradevole, i tratti caratteriali sono esasperati e portati alla luce tramite dialoghi noiosi e ripetitivi.

In seconda battuta, la maggior parte delle scelte narrative e registiche appare spesso e volentieri fuori fuoco. Forse l’intenzione era quella di catturare una parvenza di vita reale, ma ci ritroviamo qui alla domanda iniziale di questa recensione.
Domanda a cui si collega anche la scelta di far interpretare il ruolo dei tre amici ai veri tre amici, che si rivela perdente. Se l’idea ha in sé un qualche germe di romanticismo, l’esecuzione è da brividi. Aver vissuto qualcosa e portarlo poi sullo schermo è totalmente diverso. I tre ragazzi non sono fatti per stare davanti alla cinepresa. Nelle scene condivise con attori o attrici (come Judy Greer, che interpreta la madre di uno dei tre) diventa quasi insostenibile l’inespressiva mancanza di presenza, davanti alla telecamera, dei protagonisti.
C’è un motivo se si chiamano “finzione scenica” e “recitazione”.
Che più o meno metà film sia composto da scene che non aggiungono nulla e non vanno da nessuna parte non è un buon segno. Non è così importante seguire i protagonisti che entrano in una gelateria e ordinano ognuno il suo gusto con la cinepresa che inquadra ogni volta il gelataio che prende la paletta e riempie la coppetta, per poi indugiare su ognuno di loro che ringrazia uscendo dal locale. Visto? E’ noioso anche da leggere.
Purtroppo aggrapparsi al proclama “è una storia vera” non è sufficiente nemmeno nella sequenza dello scontro sul treno. Tutto è così sottotono a quel punto del film da non presentare alcun appiglio per investire ancora tempo, voglia ed emozioni in ciò che scorre sullo schermo.

RETORICA